Dialetto: DNA delle nostre origini e della nostra cultura


di VITTORIO POLITO - «Il dialetto è come i nostri sogni, qualcosa di remoto e di rivelatore; il dialetto è la testimonianza più viva della nostra storia, è l’espressione della fantasia». Così Federico Fellini definiva i dialetti italiani, mostrando nelle sue opere cinematografiche un particolare affetto per il lessico materno.

Il dialetto, patrimonio di cultura e saggezza di un ambito territoriale, secondo alcuni riveste scarsa importanza, mentre appare sempre più evidente come la somma dei valori umani e spirituali delle diverse località – che si trasmettono in special modo attraverso il linguaggio – caratterizzino l’identità di una nazione.

Solitamente la lingua dialettale viene parlata da anziani o da persone che non hanno una grande cultura per cui il dialetto viene considerato, a torto, come qualcosa di meno nobile rispetto alla lingua nazionale. Invece è d’obbligo sottolineare che alla stessa stregua della lingua ufficiale, il dialetto serve a comunicare il pensiero di chi lo usa, ha le sue regole e spesso ha anche una letteratura molto importante e interessante. Tutti concordano sul fatto che il dialetto possiede una forza espressiva genuina che non sempre troviamo nella lingua nazionale.

Nell’epoca della globalizzazione, parlare in dialetto può sembrare anacronistico, ma non è così, dal momento che il dialetto fa parte del nostro patrimonio culturale ed è il segno che ci fa dire che apparteniamo ad un certo luogo. Insomma rappresenta il nostro DNA culturale. Amare il dialetto, parlarlo, insegnarlo ai nostri figli, significa amare noi stessi, significa essere possessori di una grande eredità: quella della nostra storia.

Un grande poeta, Andrea Zanotto (1921-2011), a proposito del dialetto amava dire: “…il dialetto è qualcosa che serve per individuare indizi di nuove realtà che premono ad uscire…”. L’importanza del dialetto, sta nel fatto che è vicinissimo alla vita quotidiana e reale della gente e rappresenta una diversità di radici storiche, di culture, di esperienze umane che non deve andare perduta. È fondamentale conoscere la lingua nazionale come strumento di comunicazione, ma la diversità socio-culturale fra le diverse comunità italiane è una ricchezza che va mantenuta, difesa, valorizzata e divulgata.

È indubbio che il dialetto possiede una forza espressiva e descrittiva tale che meglio manifesta sentimenti, valori, culture, speranze. Insomma “…i dialetti siano il linguaggio più autorevole della vera poesia, dell’armonia, della saggezza, della fraternità” (Teresa Gentile).

Elisa Curreli, in una sua nota, scrive che il dialetto: «È un inno alla diversità, al valore culturale di ognuno di noi che deve essere sempre rispettato. Il dialetto rappresenta le nostre radici, la nostra cultura e come tale deve essere tramandato e mai dimenticato. Si può essere cittadini del mondo pur conservando le proprie origini. Purtroppo, come avviene per tante specie viventi animali e vegetali, ogni anno scompaiono tantissimi dialetti e il mondo si impoverisce, si semplifica, si uniforma, diventa sempre più monocorde. Perde la diversità che è stata la fondamentale preziosa risorsa del genere umano e del pianeta Terra. Il dialetto continuerà ad esistere se verrà usato e valorizzato, se tante persone lo adotteranno come lingua di comunicazione. Questo è il destino di tutte le lingue.»

In Italia abbiamo una grande varietà di dialetti, molto differenti tra loro. Tutti riconoscono che i dialetti sono un patrimonio culturale di secoli riconosciuto da tutti i popoli della penisola e come tale va conservato e tutelato. La definizione di dialetto si basa su un concetto puramente sociale, sociolinguistico, che parte dalla conoscenza del dialetto regionale ed arriva alla lingua locale che include tradizioni storiche e culturali. Poiché in un dialetto c’è un lungo e complesso percorso che rappresenta sia la lingua regionale o provinciale, che l’identità locale. La comprensione dei dialetti può essere una sfida per molti, anche se sono una viva e spontanea espressione linguistica socio-culturale dei parlanti. Ma la spontaneità del linguaggio è difficile da ottenere se non la si acquisisce vivendo sul luogo.

Dopo la fine del conflitto bellico, negli anni ’60 e ’70 in quasi tutte le scuole italiane gli alunni entravano a scuola sapendo parlare solo il dialetto e ne uscivano parlando sia il dialetto che l’italiano. Gli insegnanti parlavano in dialetto tra di loro e con i genitori, i quali a loro volta parlavano poco l’italiano. Se il dialetto è parlato in famiglia e lo si impara da piccoli può considerarsi madrelingua, mentre l’italiano era la lingua che si imparava a scuola dalla maestra.

Dovremmo essere fieri dei nostri dialetti che arricchiscono la lingua italiana, ma in una società dove si cambia per integrarsi in una nuova cultura locale e si aggiungono altri nuovi valori sociali si impone anche una nuova identità imparando una nuova lingua. Essere collegati ai dialetti e alle tradizioni regionali aiuta a farci rendere conto che il dialetto in sé non è né un fastidioso ricordo di quando si era poveri o di quando l’Italiano era la lingua delle persone istruite, quindi non deve essere visto come un ostacolo per imparare l’italiano, ma come un ausilio al patrimonio linguistico da rispettare e tramandare.

Insegnare ai propri figli qualche parola in dialetto va benissimo ed è anche importante per conservare sia la lingua che la cultura italiana con le origini della famiglia. Molte parole di vari dialetti italiani si stanno già perdendo, ma senza farne un dibattito o una crociata contro il dialetto, si deve sostenere che è anche importante spiegare ai figli la differenza che c’è tra l’italiano e il dialetto, ricordando loro che il dialetto è anche un patrimonio culturale da difendere.

«Non crediamo che il dialetto sia un tentativo di tornare ad un passato che non c’è più, né un tentativo di santificare questo passato in contrapposizione al presente o al futuro, né un mezzo per far ridere. Crediamo che il dialetto non sia una lingua, non sia soltanto un modo di esprimersi, ma sia il codice per capire un modo di essere, di far luce su una civiltà. In tal senso conservare (e proteggere) il dialetto è un modo di conservare il DNA, il carattere di una gente. Nel dialetto è scritto chi fummo, chi siamo, chi saremo. Una traccia di storia e di costume per interpretare caratteri e comportamenti altrimenti poco comprensibili, se non dispersi.»  (Lino Patruno, Gazzetta del Mezzogiorno del 4 marzo 2001).

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