Ready Player One: la recensione

di FREDERIC PASCALI - Steven Spielberg torna a occuparsi di fantascienza celebrando un’epoca, quella identificabile tra il tramonto degli anni ’70 e gli spensierati anni ’80, attraverso la presentazione di uno dei suoi frontespizi più pop: l’universo dei videogame. Un’operazione nostalgia, costantemente in bilico tra mondo reale e virtuale, che, dettata dalla trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Ernest Cline, nell’occasione sceneggiatore insieme a Zak Penn, scorre serrata senza inciampi e titubanze.

Negli Stati Uniti del 2045, nella città di Columbus, vive Wade Watts, un giovane disagiato che, come gran parte della popolazione terrestre, abita una seconda vita in un luccicante e complesso mondo virtuale chiamato “Oasis”. Qui il suo alter ego immateriale, Parzival, è impegnato nella grande gara indetta da James Halliday,il defunto e geniale creatore del programma. Alla fine di un percorso di prove quasi insuperabili si trova un “Easter Egg”, un livello segreto, che consente, a chi lo raggiunga, di ottenere il controllo dell’intero sistema. Aiutano Wade un gruppo di amici tra cui l’affascinante Art3mis/Samantha e il corpulento Aech, in versione reale nulla di più che una fanciulla di nome Helen. Per riuscire dovranno superare anche la concorrenza spietata della “IOI”, la multinazionale tecnologica capitanata dal perfido Nolan Sorrento.

“Ready Player One”, seppure affascini per la sua capacità di coniugare con estrema semplicità i diversi piani del racconto, assomiglia più a un “divertissement” che, muovendosi tra spunti di riflessione e morali più o meno celate, punta a gemellare differenti generazioni nell’unico solco del “piacere del giocare insieme”. Un’impalcatura di innumerevoli citazioni d’ogni tipo sostiene l’intero impianto narrativo, dal richiamo a “Space Invaders”, il mitico videogioco della fine degli anni ’70, agli omaggi ripetuti a Robert Zemeckis e il suo “Ritorno al futuro”, a Stanley Kubrick con il sempiterno “Shinning”, a “Terminator”, a “Il signore degli anelli”; una pletora di rimandi cui non fa eccezione il volto virtuale di Parzival, che sembra ispirarsi a David Bowie, e quello de “Il Curatore” con i tratti alla Alberto Sordi.

All’altezza della situazione risultano le prove di tutti gli interpreti, di spicco quella di Tye Sheridan, “Wade”, e del caratterista Ben Mendelsohn, “Sorrento”; sconfinano nell’eccellenza le musiche di John Williams e la fotografia di Janusz Kaminski.

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