'Una', storia di fantasmi mitteleuropei

di FRANCESCO GRECO - C’è forse un posto migliore dello studio di un fotografo da cui osservare il mondo e la sua ricca fauna antropologica? Accade a Trieste, cuor d’Europa (Svevo prima e Saba poi l’han fatta amare a noi tutti), città per sua definizione e storia riccamente contaminata e innervata da mille etnie, pulsioni, percezioni, sedimentazioni: un seducente melting-pot che la natura (la Bora) si incarica di centrifugare. Che si respirano con la sua salsedine, la pioggia, il vento, perché “l’incoerenza governa Trieste”.

Ruben Granieri l’ha affittato dopo che un sarto indiano se n’è andato regalandogli una camicia troppo stretta, e vivacchia filosofando tra un ritratto e un servizio esterno. Il suo spirito però vuole elevarsi di continuo, per cui pratica il deltaplano e il parapendio per cogliere “i rumori primi della vita”, “l’odore puro e definito dell’aria…”. Accade a tutti noi in un tempo “liquido”, banale, volgare e relativizzante.
Un’esistenza quieta, piccolo borghese, condizione comune alla provincia italica, anche al crocevia di imperi che han lasciato echi di splendori e miserie, nel paesaggio e nell’anima. E l’incipit di “Una”, primo romanzo della scrittrice giuliana (nata negli USA) Serena Castro Stera, Armando Curcio Editore, Milano 2017, pp. 160, euro 12,90 (direzione editoriale Cristina Siciliano, impaginazione Ivan Muccari, supervisione Ennio Salomone).

Diciamolo subito: il fascino del romanzo è nella ontologica intreccio e contaminazione fra un sostrato mitteleuropeo (psicoanalisi, ma anche l’altro da sè, smaterializzato, di Kafka), il rigore, l’etica marziale austro-ungarica, le effervescenze a tratti deliranti della cultura balcanica. E’, si suppone, l’aria respirata dalla scrittrice, che sulla pagina si sostanzia in un pathos lirico, a tratti surreale e metafisico, in certi squarci onirico e magico, certamente di grande effetto. Una prosa magmatica, sorprendente, che riserva sorprese pagina per pagina.

L’abilità della scrittrice sta non solo nel tratteggio psicologico dei personaggi, pure efficace e nella messinscena della loro ricchezza filologica, ma anche nell’evocare background e nel tenere insieme la storia, i suoi mille rivoli e chiaroscuri che corrono in superficie e a livello carsico, come un canovaccio tessuto al telaio dalle vecchie pugliesi. Quando la “magnetica e terribile” Una – che da precaria insegna disegno nelle scuole - si presenta da Ruben e chiede una foto per il padre, subito si capisce che ci sono lutti mai elaborati, dolorosi conflitti irrisolti, ispide edipicità, ostacoli che non si riesce a rimuovere.

La lettura che ne dà Ruben, una tavolozza su cui sono spalmati i colori della forza e della fragilità, della luce e della tenebra (“la sua pelle diventava luminosa, canticchiava spesso giocando con i peluche…”), i suoi occhi d’ambra (uguali a quelli della madre hippy) intrinsecamente incubano l’inclinazione naturale ai rischi dei sentimenti. Il resto il lettore lo scopra da sé: non gli faremo il torto di dirgli perché la ragazza vuole fare un foto per il padre Stefano, militare “anaffettivo, guerrafondaio” impegnato prima in Kosovo poi in Afghanistan, petto colmo di medaglie, della sorte della madre naturale Iris e di Teresa, l’altra madre con cui intreccia un delicato rapporto di complicità, ma che, sopraffatta dalla sensualità, sposa il cognato, di Thelma, Angela Luzzi Ispettrice, Monica, Stankovic, Adele, nella Trieste “maga e megera”, grumo semantico di tutti i mali del nostro tempo immondo (cancri, divorzi, stupri, violenze sulle donne), che i posteri forse seppelliranno sotto una laida risata. Meritata.

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