'Una storia senza nome': la recensione

di FREDERIC PASCALI - Un arcano mai chiarito e un intrigo criminale che attraversa una lunga stagione della nostra Repubblica. È un po’ questo l’incipit del nuovo lavoro di Roberto Andò che firma la sceneggiatura, insieme ad Angelo Pasquini, di una storia che fatica ad assumere una sua precisa identità e barcolla costantemente nel campo dell’indefinito. Una commedia thriller che insegue e omaggia la bellezza del cinema come connubio imprescindibile di finzione ed arte in grado di doppiare la realtà in infinite rappresentazioni. Un solco d’intenti in cui non mancano le citazioni del passato e l’utilizzo di una guest star d’eccezione come il regista polacco Jerzy Skolimowski, “Leone d’oro” alla carriera nella Mostra del Cinema di Venezia del 2016.

Valeria Tremonti,timida e introversa segretaria di una casa di produzione cinematografica, è in realtà il ghost writer delle sceneggiature del celeberrimo Alessandro Pes, autore acclamato e con un notevole appeal sul genere femminile, Valeria compresa. Questa routine subisce un inaspettato contraccolpo quando la donna viene avvicinata da un misterioso signore, Alberto Rak, che si dice in grado di fornirle un storia di assoluto valore riguardo alla scomparsa avvenuta molti anni prima di uno dei dipinti più preziosi del patrimonio artistico italiano: “la natività” di Caravaggio.

In realtà,“Una storia senza nome” appare vittima della sua stessa indole con l’effetto matrioska in bilico costantemente tra il farsesco e il grottesco senza mai riuscire a ottenere un aiuto decisivo dai suoi interpreti, non sempre a loro agio nel gestire le continue sfumature del racconto. Non fa eccezione Micaela Ramazzotti, “Valeria”,che non appare pienamente centrata nel ruolo così come lo stesso Renato Carpentieri,”Alberto Rak”, che non dà mai la sensazione di possedere con estrema naturalezza il proprio personaggio. Al contrario, sia Laura Morante, “Amalia Roberti”, che Alessandro Gassmann, “Alessandro Pes”,dimostrano un approccio più naturale ed efficace per una sceneggiatura che anche nei dialoghi fatica a trovare punti di forza. Per contro,pochi dubbi suscita la fotografia di Maurizio Calvesi con la luce che, anche quando è relegata in scene dallo spunto tipicamente televisivo, non perde il suo appeal cromatico e la capacità di sottolineare adeguatamente le differenti tensioni narrative.

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