La fede secondo Papa Francesco si trasmette soltanto in dialetto

di VITTORIO POLITO - Che il dialetto sia un elemento facilitante nella comunicazione è fuor di dubbio, come ha sottolineato Papa Francesco, e, l’Italia, che ne vanta in notevole varietà, è fra le nazioni europee che gode il privilegio di avere un elemento in più nella comunicazione, come sosteneva Gerhard Rohlfs (1892-1986), filologo, linguista e glottologo tedesco, soprannominato “l’archeologo delle parole”, che si occupò a fondo della situazione dialettale italiana.

È noto che il dialetto, patrimonio di cultura, storia e tradizioni, secondo alcuni, riveste scarsa importanza, mentre appare sempre più evidente come la somma dei valori umani e spirituali delle diverse località, delineano l’identità di una nazione. Il dialetto è anche una forma di linguaggio verbale più immediata al nostro parlare, funzionando come efficace rafforzamento del nostro eloquio.

Questi, forse, i motivi che hanno ispirato il Santo Padre a dichiarare che «La trasmissione della fede si può fare soltanto “in dialetto”, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna. Poi verranno i catechisti a sviluppare questa prima trasmissione, con idee, con spiegazioni».

Franco Lo Piparo, giornalista de “L’Osservatore Romano”, tenta di dare una spiegazione: «Trasmettere a un non ancora parlante la fede “in dialetto” potrebbe dunque voler dire proprio questo: fargli sentire, con parole che l’infante sa riconoscere, la fede come qualcosa di familiare. Il Battesimo “in dialetto” non sarebbe altro che il prolungamento affettivo e cognitivo della vita prima di nascere».

Nel febbraio 2004, Giovanni Paolo II, in occasione di un incontro con i Parroci della Capitale, disse salutandoli: “Volemose bene. Semo romani”, dimostrando che era riuscito ad apprendere i rudimenti della lingua cara al Belli ed a Trilussa.

Anche Papa Francesco, in occasione della “Giornata mondiale della lingua materna” ha evidenziato l’importanza della lingua appresa dalle madri, una lingua capace di resistere alle colonizzazioni ideologiche e di trasmettere la fede. La lingua materna - ha sottolineato Papa Francesco - è un baluardo contro le colonizzazioni ideologiche e culturali, contro il pensiero unico che vuole distruggere le diversità. “Uno degli indicatori di una colonizzazione culturale” - ha detto nella Messa a Santa Marta del 23 novembre 2017 - è “cancellare la storia” per togliere la libertà di pensiero. Come a dire: “La storia incomincia con me, incomincia adesso, con il racconto che io faccio adesso, non con la memoria che vi hanno trasmesso”. Conservare la lingua materna significa resistere a questa imposizione culturale: “Non c’è alcuna colonizzazione culturale che possa vincere il dialetto”. Il dialetto “ha radici storiche”.

Gli studiosi affermano che la parte del cervello che si forma per prima durante la gestazione è l’orecchio, per cui la prima voce che sentiamo è quella della mamma. Esperimenti hanno dimostrato che da subito siamo in grado di riconoscere la voce e quindi la lingua della madre, rispetto ad altre lingue. La prova è facilmente riscontrabile, se si fa attenzione, quando il neonato ciuccia, lo fa più intensamente e con maggiore frequenza quando è esposto alla voce materna piuttosto che a voci di altre persone o di altre lingue. Segno inequivocabile di riconoscimento della lingua materna.

Il giornalista Franco Lo Piparo ha scritto sull’Osservatore Romano, riportando le parole del Papa «La trasmissione della fede si può fare soltanto “in dialetto”». Gli infanti non parlano ma sanno distinguere le voci familiari della lingua materna da quelle di altre lingue. Trasmettere a un non ancora parlante la fede «in dialetto» potrebbe dunque voler dire proprio questo: fargli sentire, con parole che l’infante sa riconoscere, la fede come qualcosa di familiare. Il battesimo «in dialetto» non sarebbe altro che il prolungamento affettivo e cognitivo della vita prima di nascere.

D’altro canto che si può pregare anche in dialetto, e forse meglio, è testimoniato dalle numerose pubblicazioni che riportano, in vari dialetti, Vangeli e Preghiere. Per gli eventuali interessati ne cito solo alcune che hanno tradotto i testi originali utilizzando il dialetto barese.

Luigi Canonico, noto poeta dialettale barese, che ha pubblicato alcuni libri di poesie, proverbi ed altro, si è cimentato, con un’ardua e complessa opera, a tradurre in dialetto barese i Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Il notevole lavoro fatto da Canonico si intitola «U Vangèle chendate da le quatte Evangeliste: Matté, Marche, Luche, Giuanne veldate a la barése», (Stampa Pressup, Roma).  Augusto Carbonara, invece, ha tradotto in dialetto barese il Vangelo dell’Evangelista Marco «U Vangele alla manere de Marche veldate a la barese» (Wip Edizioni). Infine, chi scrive, in collaborazione con Rosa Lettini Triggiani, ha pubblicato «Pregáme a la Barése» (Preghiamo in dialetto barese), Levante Editore, che presenta non solo le preghiere tradizionali del popolo cristiano (sempre con testo in italiano a fronte), ma anche il “Cantico delle Creature”, “I Comandamenti”, alcune preghiere a San Nicola, a Sant’Antonio, a San Pio, ecc.

In conclusione il Papa invita i cristiani di tutto il mondo a professare la fede «In dialetto» alla maniera in cui una mamma canta la ninna nanna al suo bambino. Proprio come ha fatto Maria. Per questo, Papa Francesco, si è raccomandato a trasmettere la fede “nel dialetto della famiglia”, “di mamma e papà, di nonno e nonna”. Un ‘dialetto’ indispensabile: Se a casa non si parla fra i genitori quella lingua dell’amore, la trasmissione non è tanto facile, non si potrà fare. Non dimenticatevi!
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