Alcune epidemie che hanno colpito Bari qualche secolo fa

VITTORIO POLITO – Da oltre un anno non si parla d’altro che di epidemie o di pandemie da “Covid-19” o “coronavirus”, della fase 1 e della fase 2, di varianti, di vaccini, ecc. Sta di fatto che ad oggi non sappiamo ancora con certezza che cosa si deve fare per ritornare alla normalità e per rispettare, con sicurezza, le regole per la protezione individuale e generale.

Dell’epidemia se ne sono state dette “di cotte e di crude”, tanti in cattedra a pontificare sul da farsi, a dare norme e dettare consigli, virologi, infettivologi, esperti, numerosi sedicenti “predicatori” a dare suggerimenti sui social, sui media, in TV, ecc., ma le incertezze sono tali e tante e non si sa se alla fine si verrà a capo del preoccupante problema o se il vaccino annienterà lo spaventoso virus.

Al di là del “coronavirus”, vediamo alcune epidemie che hanno interessato Bari, qualche secolo fa, ricordate da Vito Antonio Melchiorre su “Storie di Bari” (Adda) e da Vito Masellis “Storia di Bari” (Italstampa).

Nel 1656, una epidemia di peste si sviluppò tra Napoli e Bari e, per non impaurire coloro che venivano da fuori città, si cercava di non rivelare che si trattasse di peste, fino a quando il povero medico Giuseppe Verzillo diagnosticò il terribile male su tre fanciulli morti e la gente incredula per poco non lo linciò e lo fece addirittura imprigionare.

A causa della peste centinaia di persone erano colte da calore e freddo eccessivi e dallo spuntare a livello di inguine e ascelle di bubboni - definiti in dialetto “pannocchie” - che conducevano rapidamente a morte. Le case degli appestati erano segnate per consentire ai becchini di raccogliere i cadaveri. I rimedi adottati però erano peggiori del male, ordinando la quarantena per chi proveniva dall’esterno, senza dare importanza agli infettati che erano all’interno e se la presero allora con cani e gatti, ritenuti veicoli di contagio e se ne ordinò una strage.

Solo agli albori del 1657 il flagello si placò per cessare del tutto il primo martedì di marzo, dedicato alla Madonna di Costantinopoli, dopo aver mietuto ben dodicimila vittime a cui seguì una generale disinfezione, mentre il 17 aprile furono solennemente rese grazie al Signore nella Cattedrale e nella Basilica di San Nicola a cui seguì, da parte dell’Arcivescovo, la benedizione dei morti seppelliti in 4 fosse comuni. La cerimonia venne ripetuta per diversi secoli il lunedì successivo alla Domenica di Passione.

Il medico e letterato Marco Aurelio Salice in un sonetto deplorò il luttuoso evento del 1656 che, per motivi di spazio, riporto solo una quartina:

«Precipita la Peste e a molti, e molti

Gli orti son Tombe, e Lazzaretti i Chiostri,

E poscia i morti in un gran Mucchio accolti

si fan pasto de Lupi, e di più mostri»

Verso la metà del ’700 si diffuse a Bari un male di origine sconosciuto che colpì molte persone agli occhi, privandole della vista. Il cosiddetto “mal d’occhi” non fu sensibile ai vari rimedi suggeriti dalla scienza, al punto che il Parlamento cittadino il 28 maggio 1749 non seppe che escogitare altro espediente che indire funzioni religiose in onore di San Sabino. A distanza di 45 anni, nel 1794, la gente continuava a soffrire di tale patologia insieme a «lunghe malattie putride, reumi ed altri malanni».

I sindaci dell’epoca Vincenzo Tresca Carducci e Giovanni Verrone chiesero il parere di 5 luminari di medicina, i quali furono unanimi nel ritenere che il focolaio fosse il mercato di Piazza Mercantile ove, fruttivendoli e pescivendoli abbandonavano per strada i residui della merce inzuppati di acqua e frammisti ad alghe, usati per produrre letame. Il fetore e l’umidità dannosa era, forse, dovuta agli edifici che circondavano la piazza, la cui altezza, impedivano una adeguata ventilazione.

I sindaci, di fronte a tale evidenza, decisero di far spostare i posteggi di vendita nell’attiguo largo del Ferrarese, molto arieggiato e vicino al mare, il che consentiva il deflusso delle acque luride verso il mare.

Nell’estate del 1836 si registra a Bari una epidemia colerica di eccezionale gravità con 1290 casi di infezione e 238 decessi in appena 4 mesi. Il flagello sembrò attenuarsi verso la fine di dicembre, ma riprese a imperversare nel giugno 1837, causando in un semestre altre 854 infezioni e 138 nuovi decessi.

Considerando che la città contava appena 26 mila abitanti, le autorità si preoccuparono non poco, come si legge negli atti «di provvedere intorno ai mezzi come accorrere in aiuto dei poveri infermi, e ciò per umanità, e perché la malattia dominante venisse debellata al più presto». Furono così acquistati letti, biancheria, vitto per gli ammalati e vennero ingaggiati 24 spazzini muniti di 6 carretti, per la pulizia della città per evitare «maligne influenze atmosferiche tanto nocive alla pubblica salute».

I mezzi furono suddivisi fra le 7 parrocchie cittadine e il decurionato affidò al sindaco il coordinamento di tutti i servizi, con facoltà di adottare qualsiasi altra misura avesse ritenuta utile.

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