“Al di là dell’estetica”, l’anima vera dell’Africa

 


FRANCESCO GRECO - Il postulato di partenza è il collezionismo, ma è solo un bell’espediente che Wole Soyinka usa per frugare nell’anima, nel cuore antico del suo Continente, l’Africa, ripercorrendo lo specifico culturale dalla cosmogonia e dal pantheon ai giorni nostri. Un viaggio emozionante, sviluppato sul mainstream del sincretismo più multiforme, specie per noi occidentali che il nostro lo abbiamo fatto saccheggiare dal marketing.

Il grande poeta, saggista, drammaturgo, intellettuale, attivista dei diritti umani nigeriano (Premio Nobel 1986) è un collezionista d’arte assai particolare, diremmo unico, “compulsivo”, avventuroso e anche sfortunato tra furti subiti e tombaroli, però gli resta il bracciale che Re Salomone donò alla regina di Saba. 

Non cerca le opere per riempirsi la casa di bellezza, non è un borghese attratto dalla loro filologia cui tutti possono accedere, posto ne abbiano i mezzi.

L’arte è invece un pretesto, un input, è usata come una password (un passpartout) per tentare di decodificare la sua civiltà e cultura millenaria, svelarla nei topoi della sua complessità e contaminazioni, prima a sé stesso e poi a noi occidentali dallo sguardo colmo di luoghi comuni che ci portano assai lontano dall’essenzialità nuda della dialettica di un’opera, come di un oggetto, sia un sontuoso cappello, sia un monumento al Rinascimento africano (di ferro e terriccio, curiosamente made in Corea del Nord), sia una normale statuetta.

“Al di là dell’estetica” (Uso, abuso e dissonanze nelle tradizioni artistiche africane) Jaca Book, Milano 2020, pp. 204, euro 50,00, traduzione di Cristiano Screm, cover di Paola Forini, arricchito da un apparato fotografico che toglie il fiato, la gallery delle opere d’arte a casa del poeta. 

Una pubblicazione sontuosa, di quelle che restano. Ha la leggerezza di un divertissment, ma la profondità di uno sguardo universale, cosmopolita, che non si nutre della comune estetica codificata cui ci abbeveriamo noi, cittadini del XXI secolo, indotta su sentieri già battuti dalla comunicazione planetaria (oltre che dal marketing), ma ha una scansione escatologica, che fruga nel mito, l’antropologia e le sue infinite sedimentazioni, leggendo l’intimo dna di un’opera, il pathos del testo nel suo ontologico contesto.

Soyinka è una bella persona, unica nella sua ricchezza, un prof. di quelli di una volta, che ha girato il mondo riportando su di sé le relative contaminazioni: sarebbe bello, un privilegio conoscerlo, un sicuro, prezioso arricchimento.

 In questi piccoli saggi estrapolati dalle sue conferenze per il mondo, esplora il pantheon delle divinità africane, per suo tramite, ci dona la loro energia. 

Il poeta sa collegare il particolare all’universale e viceversa, in un delizioso gioco di estremo fascino e seduzione intellettuale cui noi non siamo più abituati, vivendo di surrogati già confezionati dall’industria che ci riempie le case, anche di opere d’arte già svelate.

Soyinka invece, con un approccio che è anche pedagogico oltre che politico, ne riscrive la semantica più segreta, ci conduce per mano nel gotha delle sue divinità, in una continua osmosi che attraverso miti e riti mette in comunicazione uomini, popoli, morti che vivono sulla stessa lunghezza d’onda e interagiscono in ogni circostanza, dalle danze ai matrimoni, dalle superstizioni ai monumenti.

Un libro in cui a ogni pagina c’è una scoperta e una rimodulazione degli archetipi della sua cultura che vagano in Occidente e di cui siamo portatori sani. A loro l’emozione, il mood, la ricchezza degli occhi e del cuore, a noi la supponenza autoreferenziale di una disidratazione culturale di cui peraltro non abbiamo coscienza.


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