Utilità delle grammatiche nei dialetti italiani e barese in particolare: intervista al dott. Luigi Andriani


VITTORIO POLITO -
La grammatica è il complesso delle norme e delle convenzioni che costituiscono il particolar modo di essere e di funzionare di una lingua (o di un dialetto), che danno stabilità alle manifestazioni espressive delle persone che parlano una stessa lingua in una nazione o in una città, ovvero il sistema fonologico, morfologico, sintattico, ecc., come si riflette di volta in volta nelle singole espressioni: la grammatica italiana, tedesca, francese, o dialettale, napoletano, romano, genovese, barese, ecc.

Il primo libro di grammatica italiana fu scritto nel 1435 da Leon Battista Alberti (1404-1472), un genio che nella sua vita si interessò di tante cose un po’ come Leonardo da Vinci. La grammatica di Leon Battista Alberti, però, non fu mai pubblicata, e rimase nascosta per secoli in una biblioteca.

Leon Battista Alberti, primo grammatico di una lingua volgare, nella sua “Grammatichetta vaticana” (il nome si deve alla biblioteca in cui è conservato il manoscritto), fissa per la prima volta alcune regole del volgare fiorentino colto del Quattrocento, come l’opposizione temporale del passato prossimo al passato remoto e l’uso del condizionale, modo verbale assente nel latino. Il suo intento era quello di dimostrare che la lingua in uso a Firenze era degna di competere con il latino in tutti i campi del sapere perché è anch’essa dotata di norme grammaticali. Così facendo Alberti diventa il principale esponente dell’Umanesimo volgare, in contrasto con l’idea allora prevalente che voleva il latino unica lingua grammaticale.

La prima grammatica italiana fu pubblicata ad Ancona nel 1516 dalla bottega di un tipografo di origine vercellese, Bernardino Guerralda, con il titolo di “Regole grammaticali della volgar lingua”, mentre la grammatica italiana più importante e più famosa fu pubblicata nel 1525 da Pietro Bembo (1470-1547), un cardinale veneziano letterato che conosceva benissimo il greco, il latino e anche l’italiano. Secondo Bembo, la lingua migliore d’Italia, fu usata da Francesco Petrarca per scrivere i versi del suo “Canzoniere” e Giovanni Boccaccio per scrivere le novelle in prosa del suo “Decamerone”. Tutti gli scrittori italiani avrebbero dovuto fare la stessa cosa: avrebbero dovuto usare il fiorentino in versi di Petrarca se volevano scrivere delle poesie e il fiorentino in prosa di Boccaccio se volevano scrivere novelle, racconti, commedie o romanzi.

Il dialetto barese con le influenze delle lingue arabe, spagnole, francesi, latine e greche, si “trasforma” così in una lingua pittoresca e unica nel suo genere. La particolarità e il folklore di questo dialetto è che varia e cambia a seconda della distanza dall’epicentro, assumendo diverse sfumature e connotazioni.

Sulla scia delle precedenti note e per avere un supporto scientifico sull’uso della grammatica in generale e del dialetto barese in particolare, ho intervistato un esperto di lingue dialettali, il dott. Luigi Andriani, ricercatore all’Università di Utrecht, Paesi Bassi, all’interno del progetto della prof. Roberta D’Alessandro, Professor of Syntax and Language Variation presso l’Università di Utrecht, “Microcontact” (https://microcontact.sites.uu.nl), finanziato dall’European Research Council. Ha conseguito il dottorato in linguistica romanza e dialettologia italiana con il Prof. Adam Ledgeway all’Università di Cambridge, Regno Unito, dove ha insegnato per 6 anni. Ha collaborato con l’Università di New York a Firenze e a New York e, nel 2018, è stato assegnista di ricerca all’interno del progetto PRIN della Prof. Michela Cennamo all’Università di Napoli “Federico II”.

D: Secondo lei qual è l’utilità delle grammatiche nei dialetti italiani?

R: "Soprattutto nel caso di lingue non standardizzate come le nostre, una grammatica di riferimento, sia divulgativa, sia scientifica, dovrebbe descrivere il comportamento dei diversi moduli linguistici, quali fonetica, fonologia, morfologia, sintassi e pragmatica. In più, questi moduli si potrebbero considerare da un punto di vista storico (“diacronico”) o contemporaneo (“sincronico”). Idealmente, a questi si dovrebbero affiancare fattori extra-linguistici relativi all’impiego di tale lingua da parte di diversi gruppi di parlanti e all’interno di diversi contesti comunicativi. L’utilità di quest’opera sarebbe quella di poter consultare una “fotografia” di un determinato stadio di sviluppo di una data lingua, che ne descriva tutti gli aspetti e ne evidenzi “i limiti” (nel campo della sintassi, per esempio, un ordine delle parole che non è proprio possibile produrre, magari rispetto a un’altra lingua o dialetto). Sottolineerei che tutto ciò dovrebbe essere frutto di un’attenta osservazione del comportamento di tale lingua, piuttosto che di una tradizionale raccolta, tipica delle grammatiche prescrittive e non descrittive, di “regole ed eccezioni”, che tra l’altro potrebbero cambiare del giro di qualche anno".

Si può scrivere una poesia o un racconto senza utilizzare la grammatica?

"Partirei dalla premessa che ognuno dovrebbe essere libero di scrivere ciò che vuole nella maniera in cui preferisce, purché lo scritto sia fruibile dalla collettività, se l’intento di questo è divulgativo. Detto ciò, non è semplice fornire una risposta precisa a questa domanda, perché, a mio avviso, la questione ha radici più profonde, soprattutto se si parla di lingue non standard in Italia. Mentre un madrelingua non avrà alcun problema a parlare la propria lingua, non è detto che sia in grado di scriverla con altrettanta facilità. Questo perché l’ortografia è un codice arbitrario stabilito a tavolino (e non è assolutamente parte integrante della grammatica di una lingua, serve solo a rappresentarla e a registrarne alcuni aspetti), ma non è detto che la lingua in questione sia stata codificata, e tale codifica unanimemente accettata. Per produrre un testo scritto in qualsiasi lingua, si presuppone che uno scrivente disponga degli strumenti linguistici per approcciarsi alla traduzione del proprio pensiero in forma scritta. Nelle lingue non standardizzate, questo compito risulterà più arduo, perché bisognerà appoggiarsi alle diverse nozioni linguistiche apprese per la lingua standard e non per il dialetto. Queste, molte volte, possono non combaciare, perché si tratta pur sempre di lingue diverse, anche se appartenenti alla stessa famiglia linguistica (romanza). Un esempio pratico, particolarmente valido per i nostri dialetti, è la diversa percezione fra parlanti/scrittori dell’obbligatorietà di “a” del cosiddetto “accusativo preposizionale” (per es. vedo a Paolo), che separa nettamente (con pochissime eccezioni) l’italiano da molti dei dialetti italoromanzi. Se tale obbligatorietà non è registrata nella grammatica di riferimento, è probabile che l’autore propenda per l’opzione che gli è più familiare nel momento della scrittura, cioè l’italiano, snaturando così la sintassi del dialetto. Questo e altri tipi di limitazioni derivano dalla poca dimestichezza con il funzionamento generale dei moduli linguistici a cui mi riferivo in precedenza, a prescindere dalla lingua specifica. In parole povere: non siamo abituati (anche per colpa dell’istruzione scolastica) a riflettere sul funzionamento di una lingua e ci atteniamo a quelle regole ed eccezioni che vengono fornite “dall’alto” e che vengono seguite ciecamente perché spesso non si dispone degli strumenti per rielaborarle e applicarle alle lingue non standard. Ciò nonostante, si può comunque provare a scrivere una poesia o un racconto “a sentimento”, ma i risultati potrebbero non essere apprezzati da chi ha riflettuto più a lungo su certe questioni".

Per essere valida una grammatica a chi spetta la paternità e quali le condizioni per diffonderla?

"Per i motivi che ho menzionato sopra, è chiaro che la persona più adatta a scrivere una grammatica sarebbe la figura del linguista professionista, o di chiunque sia riuscito ad acquisire gli strumenti necessari per avvicinarsi alle competenze dei professionisti. Il linguista professionista non è (solo) uno studioso di lingue, ma è un esperto del settore che possiede competenze scientifiche sul funzionamento delle lingue. Tuttavia, anche nel caso dei linguisti di professione, tali competenze sono, il più delle volte, parziali. Nel mio caso, per esempio, sarei in grado di contribuire con cognizione di causa alla parte della grammatica relativa alla morfosintassi, mentre lascerei ai miei colleghi esperti di fonetica e fonologia il compito di occuparsi di questi altri moduli linguistici. Il contrario equivarrebbe a chiedere a un dentista di operare un paziente al cuore. Detto ciò, è ovvio che più grammatiche (descrittive) vengono compilate, anche da non specialisti, più si disporrà di una varietà di dati linguistici per comprendere appieno il funzionamento di una data lingua. Pertanto, ben venga l’impegno degli appassionati mirato alla produzione di grammatiche, purché siano al servizio di uno scopo comune, senza la pretesa di essere l’unico lavoro di riferimento per una data lingua. Anche i fruitori di queste grammatiche dovrebbero imparare a non considerare le singole opere come “oro colato”, ma come uno dei tanti contributi alla causa comune da confrontare con altro materiale".


Qual è il suo giudizio sulle grammatiche relative al dialetto barese?

"Come scrive Michele Loporcaro nel suo manuale sui dialetti di Puglia e Salento (in corso di stampa per Il Mulino, Bologna), i lavori specialistici in circolazione su aspetti grammaticali dei dialetti di Bari e provincia sono pochi e, nella maggior parte dei casi, di stampo divulgativo, rispetto ai validissimi lavori che esistono per Lecce e l’area salentina. Vari tentativi sono stati fatti per il dialetto barese, con esiti di discreto successo, ma penso che si possa puntare a livelli scientificamente più soddisfacenti. È singolare, per esempio, come il barese sia ancora considerato come un’entità unica, mentre forse si dovrebbe iniziare a distinguere (e descrivere) il dialetto “arcaico”, conservato in parte a Bari vecchia e in altri quartieri dove si sono trasferiti abitanti di Bari vecchia (soprattutto donne), e il dialetto “urbano” del resto di Bari, ammodernato in moltissimi dei suoi aspetti (come già sottolineava Valente nel 1975 e, prima ancora, Nitti di Vito agli inizi del XX secolo) per via del contatto con l’italiano e con le altre varietà limitrofe che sono confluite durante l’urbanizzazione di Bari. È soprattutto quest’ultima variante di barese che verrà trasmessa alle future generazioni. A questo proposito, anche per invogliare le istituzioni a occuparsene di più, sarebbe utile mostrare quanto “i diversi baresi” siano cambiati – purtroppo impoverendosi, a meno che non si vogliano considerare gli italianismi lessicali, fonetici e sintattici come un arricchimento – in un brevissimo lasso di tempo e secondo la stratificazione sociale".

C’è poco da aggiungere o commentare al riguardo, se non testimoniare che le tesi espresse dall’illustre ricercatore, che ringrazio vivamente, vanno nella direzione del buon senso.

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