'La figlia oscura': la recensione

FREDERIC PASCALI - Stemperare un profondo senso di colpa materno è un esercizio spericolato che come tale può portare a conseguenze inusitate. Come si amano i figli? Incondizionatamente, sembrerebbe la risposta giusta, oltre che quella più ovvia. La stessa che probabilmente risuona nella mente della protagonista del lavoro diretto da Maggie Gyllenhaal, ispirato dall’omonimo romanzo della misteriosa Elena Ferrante.

Leda, quarantottenne professoressa universitaria in vacanza su uno dei litorali greci, si trova suo malgrado costretta a ricordare a ritroso nel tempo. La presenza, come vicina d’ombrellone, di Nina e della sua figlioletta Elena, innesta un processo di memoria che ripercorre gli anni di quando presa dalla sua carriera universitaria, e da un rapporto matrimoniale poco stimolante e soddisfacente, assume una decisione, nella gestione delle sue due figlie piccole, destinata a segnarla per sempre.

Un tormento interiore che la pellicola della Gyllenhaal, autrice anche della sceneggiatura, trasmette con l’abilità di renderlo privo di enfasi, tratteggiandolo con i contorni del quotidiano.

La trama principale scorre in parallelo con i flashback e si alimenta di propositi, veri o presunti, che macerano la protagonista e suggellano la tensione narrativa. Di assoluto rilievo risulta l’interpretazione di Olivia Colman. La sua Leda rasenta la perfezione trascinando l’intero cast, anch’esso su standard rilevanti, con le presenze di Dakota Johnson, Jessie Buckley, Ed Harris e Peter Sarsgaard che lustrano una squadra d’eccezione.

In questo contesto è d’obbligo la menzione per Hélène Louvart. La sua fotografia padroneggia con assoluta cognizione di causa i chiaroscuri, che decidono i punti di svolta della narrazione, e gli accenti di luce appendici dei primi e primissimi piani. In un lavoro nel quale anche i dialoghi funzionano egregiamente forse è proprio la macchina da presa che nel corpo centrale si lascia andare a un eccessivo autocompiacimento, spalmando copiosamente le idi del marasma interiore che nel presente e nel passato consuma costantemente la protagonista. Un eccesso di stile che non inficia più di tanto il valore di un film che si colloca senz’altro nel comparto dei “da non perdere”.

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