De Dominicis “desnudo” in un saggio di Gino Meuli

 


FRANCESCO GRECO - Irridente e blasfemo come Marziale nella Roma carpe diem, lussuriosa; sulfureo come G. G. Belli nell’Urbe papalina; solidamente ancorato all’identità delle proprie radici identitarie come Trilussa (Carlo Alberto Salustri).

Giuseppe De Dominicis è anche dentro questa dimensione letteraria, ma anche esistenziale. Origini modeste ma grande intelligenza, studi faticosi, una breve vita, la sua (1869-1905): se ne andò ad appena 35 anni per un attacco di cuore (non sapeva di essere cardiopatico), come il padre Salvatore e la fidanzata Mariuccia, la sarta che non fece in tempo a sposare: mai nozze furono così a lungo rinviate “alla stagion dei fiori”.

Una poesia segnata dal “pessimismo cosmico” (Hervè A. Cavallera in prefazione), in questo lo si accosta a Leopardi “anima inquieta”, ma anche dove baluginano lampi di socialismo in progress. E infatti i suoi personaggi hanno anche una  scansione  rivoluzionaria e portano lo scompiglio negli equilibri cristallizzati all’Inferno (dove il suo alter ego Pietru Lau, il Dante della sua Comedia, è finito per aver rubato, spinto dal bisogno, un tomolo di grano, circa mezzo quintale), in Purgatorio e in Paradiso. Lottano contro le ingiustizie sociali, disuguaglianze, angherie dei potenti. 

Nei sui “Canti de l’autra vita”, ne ha anche per il Creatore, che con la luta (fango) prima fece i ricchi (i Torlonia, i Tamborrini, etc.); poi la ricca borghesia e infine, con quella che gli restava, i poveracci, i disperati maledetti da Lui stesso: sciancati, ciechi, insomma, da compatire. E infatti il poeta fu inviso alla Chiesa, che mise all’indice i suoi scritti: si era permesso di dire che la creazione avvenne in cinque giorni e che Dio avrebbe dovuto evitare di creare anche l’uomo, errore imperdonabile. Più blasfemo di così in un contesto cupamente cattolico.  

A farlo scendere dal piedistallo della statua che Cavallino (grata) gli ha dedicato nel 2005 in piazza Sigismondo Castromediano (uno dei pochi, a prenderne le difese), a svelarlo al territorio addormentato, lo storico Gino Meuli (alla settima pubblicazione), in “Vita ed opere di Giuseppe De Dominicis” (Nell’eterna lotta tra vita e scienza, tra amore e morte), Edizioni Panico, Galatina 2022, pp. 168, s. i. p, bella cover del famoso artista Vito Russo.

Una ricognizione dei passaggi più significativi della sua opera (da “Scrasce e Gesurmini” alla famosa Comedia), con pregevole traduzione a fronte dal dialetto leccese. E non era facile se è vero che il dialetto di Terra d’Otranto è polisemico e ha mille sfumature, fonemi, declinazioni in ogni campanile) e che eleva lo innalza all’onore di lingua, per una riposizione del letterato leccese (pseudonimo Capitano Black), quasi contemporaneo del Belli, origini povere, popolari, come la sua amata  Mariuccia (a cui in morte dedica una poesia struggente) arrabbiandosi con Dio per il “cheu” (chiodo) che gli ha conficcato dentro al cuore e che lo fece ammalare e andarsene anche lui. 

Il saggio ha una chiave divulgativa, è un tentativo di porgere a tutti noi e avvicinare alle nuove generazioni un personaggio così ricco di contaminazioni e diremmo decisivo per la cultura del Salento, che già nella scelta di scrivere in dialetto aveva delineato la sua poetica: la vita quotidiana del popolo, le sue fatiche, i dolori, le speranze. 

Sarà presentato a Salve (Terrazza della Biblioteca Comunale) il 6 agosto, alle ore 20, con interventi, oltre all’autore, del prof. Cavallera, docente emerito all’Unisalento, il giornalista Ludovico Malorgio (presidente del Cenacolo “Amici di G. De Dominicis”) e Francesco Greco in qualità di moderatore.  





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