Ancora un regalo di Grazia Galante: ”Il ciclo della vita a San Marco in Lamis”


LIVALCA
- «Un paese in cui nessuno si sentiva solo. La condivisione dei problemi e delle gioie tra vicini di casa oggi potrebbe essere scambiata per invadenza e limitazione della privacy, ma era solo una sentita condivisione delle difficoltà che la vita allora presentava. Credo, comunque, che questa “invadenza” sia da preferire alla indifferenza e all’egoismo di oggi» questo stralcio è stato tratto dalla presentazione che Grazia Galante ha stilato per il suo dodicesimo volume dal titolo “Il ciclo della vita. Tradizioni e credenze di San Marco in Lamis” (Andrea Pacilli Editore, Manfredonia novembre 2022, pp. 272, € 25,00) che come afferma Grazia Stella Elia, in una prefazione pregna di riferimenti-legami-citazioni-nessi e attinenze, sembra “un ultimo tassello, il completamento del mosaico demologico relativo alla sua terra”.

Chi conosce la tenacia della Galante sa che non si fermerà mai, come non finirà mai di confezionare con le sue mani quei dolci che sono il primo tagliando che lei offre a coloro che vanno a farle visita: tagliando che dispone di tanti ‘petali’ che sono una premessa ad un possibile-eventuale diabete, ma anche una tregua silenziosa con cui conquista non il palato ma il tuo cuore. La prima volta che sono andato a San Marco, comune che già conoscevo abbastanza bene da ragazzo, dalla regina indiscussa di quel forno creativo appellato sammarco, avevo la parca indicazione di Emilio Coco - carissimo Emilio “La vida pasa silenziosa, a lo lejos, tan cerca del alma/ tan cerca que vida y muerte, dolor y alegría son lo mismo” - di tre parole “di fronte casa”, che non era proprio così (il rifugio di Emilio si trova venendo dal versante alto), e via Farina (un monsignore che conoscono in pochi)… appena pronunciavo il nome Grazia Galante mi conducevano a destinazione. I sammarchesi, da quello che ho poi percepito, non danno subito le indicazioni perché devono prima comprendere chi osa violare la loro struttura, il loro nucleo abitativo. Non a caso Grazia all’inizio ha parlato di invadenza tipica degli anta-anta, che oggi si scontra con l’indifferenza, che solo in pochi casi sfocia nell’egoismo, degli enti-enta.

Il ciclo della vita del libro parte dalla nascita (gravidanza, previsioni, sesso, corredino, parto, nome, puerperio, allattamento, complicazioni per la puerpera, neonato, battesimo, svezzamento, dentini, primi passi con cadute, pozzi e fontane, prima comunione, scuole di mestiere); prosegue con il matrimonio (fidanzamento, amore contrastato o rifiutato, il corredo nuziale, oro, preparativi pranzo nuziale e matrimonio, funzione della donna nella vita familiare, il lavoro della donna sammarchese, abbigliamento femminile e maschile, casa delle famiglie meno abbienti e casa delle benestanti, lavoro e dopolavoro); e si conclude con la morte (viatico, decesso, divulgazione notizia, esposizione feretro, funerale, tumulazione, bara, banda musicale, funerale dei bambini, visite di condoglianze, usanze legate al lutto, spirito, devozione per anime del Purgatorio).

La poetessa-scrittrice di Trinitapoli Grazia Stella Elia (da non dimenticare che nel 2004 ha pubblicato con l’editore Levante di Bari un libro prezioso e raffinato “Il matrimonio e altre tradizioni popolari”, in cui analizza-approfondisce-scandaglia, con meticolosa diligenza, ogni risvolto inerente il matrimonio elencando riti che, pur chiamati in modo differente, sono patrimonio di tutta la Puglia) nella prefazione del volume con questi tre periodi, che vi riporto, rende omaggio alla collega sammarchese con lucida maestria: «Nessun particolare viene trascurato sul lavoro, intenso e poliedrico, della donna sammarchese. La sua casa è vista ed evidenziata in ogni suo angolo, in ogni tipo di arredo.

La povertà della gente comune contrasta con l’agiatezza dei facoltosi, ma le donne indigenti aguzzano l’ingegno per adempiere alle necessità della famiglia, spesso ricca di prole.

La morte, considerata un evento da vivere quasi in collettiva emozione, si ammanta di credenze, usanze e superstizioni e l’autrice si impegna in descrizioni meticolose e capillari che, ancora una volta, evidenziano le distanze che separano i poveri dai ricchi in tutte le fasi che riguardano il trapasso dall’agonia al funerale, dal consòlo alla sepoltura».


La Galante senza molte perifrasi ci racconta che i figli erano considerati, se maschi, una ricchezza, se femmine non una ‘disgrazia’, ma una ‘cambiale’ da onorare al più presto con un matrimonio (quanne passa li vintune/ no lla vò’ cchiù nnisciune), se per qualsiasi motivo restavano senza marito alla soglia dei trent’anni dovevano accontentarsi di sposare un vedovo o finire in parrocchia come ‘sbrezzòche’. I lavori cui spesso si adattavano per rendersi indipendenti e non pesare economicamente sulla famiglia erano: sarta, ricamatrice, tessitrice e, a volte, fornaie.

Sul matrimonio apprendiamo che quasi sempre il corredo di entrambi gli sposi veniva esposto una settimana prima: quello della sposa nella casa paterna, quello dello sposo nella casa in cui dovevano andare ad abitare. Se la sposa era dotata di dote, il vestito era pagato dallo sposo e quindi era esposto con il corredo dello sposo. Era prassi consolidata che la camicia, la cravatta e i guanti dello sposo fossero a carico della famiglia della ragazza da maritare. Un capitolo molto lungo è dedicato all’oro che avevano in dote gli sposi: pezzi che difficilmente erano venduti ma si tramandavano dai genitori ai figli. Il pranzo di nozze quasi sempre era a casa dello sposo e a base di pollo, agnello e castrati, oltre che polpette e lasagne: i benestanti ricorrevano all’aiuto di cuochi professionisti che contribuivano a dirigere le operazioni delle donne di casa. La Galante precisa che spesso il vicinato contribuiva a fornire, posate, piatti, sedie ed altro e i problemi erano per il ‘rientro’ perché spesso gli oggetti di uno finivano ad un altro e da cosa nasce e cosa e la lite poteva, raramente, ‘degenerare’.

All’epoca le famiglie erano numerose, nonostante una mortalità infantile molto elevata: pensate per i funerali dei bambini le campane suonavano a gloria perché il bambino, essendo innocente in tutto, diventava un angelo del Paradiso e i parenti stretti non vestivano di nero. Bara, carro funebre e vestiti del bambino deceduto dovevano essere tutti in bianco. Le famiglie che non potevano permettersi il carro si servivano di una slitta di legno tirata da 4 ragazzi. Se il defunto aveva dieci anni indossava l’abito della Prima Comunione, se si trattava di femminuccia vi erano 4 ragazzine vestite di bianco con una palma in mano. Se si trattava di bambino in età scolastica, vi era l’intera classe con l’insegnante a seguire il feretro. Poi vi era il consolo (lu recùnzele) che consiste in una forma di cortesia che i parenti o il vicinato fornivano per rifocillare i parenti del deceduto, dopo una giornata comunque stressante.

A tal proposito ho un ricordo personale legato all’anno in cui avevo terminato la terza media: mio zio Costantino, venuto a Bari per un congresso, condusse me e mia cugina Tina a San Nicandro Garganico (allora si chiamava, fin dal 1861 Sannicandro, poi nel 1998 una delibera del Consiglio Comunale, approvata dal Presidente della Repubblica, ripristinò il vecchio originario San Nicandro Garganico) per trascorrere alcune settimane di vacanza con i cugini. Una sera zia Marietta chiamò il sottoscritto, Michele grande e piccolo, Ginetto e Maria per portare alcune ceste ricolme di pietanze il cui odore si sparse per tutto il corso principale: erano per dei parenti che avevano trascorso la giornata a piangere il defunto… io con Michele maggiore partecipammo attivamente al banchetto perché avevamo il compito di riportare alla base tutti i contenitori in cui vi erano i viveri.

Tra le usanze posso citare lo scaldino - Oggi sarebbe utilissimo? Ci vorrebbe il carbone vero, non quello che ci regalano le ‘Befane’, di cui ero ghiotto - adoperato da tutti (anziani in primis) ed anche i capelli persi durante l’operazione della pettinatura che si riciclavano con il baratto di mollette, aghi e spilli da balia. Nella parte dedicata alle superstizioni mi sono soffermato sulle credenze che riguardano tutta la Puglia ad eccezione dello specchio: siamo d’accordo che la sfortuna durava sette anni se si rompeva uno specchio in casa e qualora fosse avvenuta la ‘rottura’ di venerdi 17 per diciasette anni. A San Marco per la Galante uno specchio in frantumi di venerdì 17 porta 70 anni di disgrazia che sono davvero tanti e mi fanno pensare a quella frase del teologo battista inglese Rowley, che non fu solo missionario in Cina verso la metà del secolo scorso, ma anche un famoso cultore di studi biblici: «La più lunga disgrazia trova alfine lenimento».

Un tempo vi era una frase - oggi superata abbondantemente dall’avvento di una giovane donna alla Presidenza del Consiglio - che recitava : «Gli uomini fanno le leggi, le donne le credenze» che riferisco solo per evidenziare, come attesta il lavoro della Galante, che il ciclo della vita parte da una donna che partorisce e va avanti tra tradizioni e credenze tramandate da quella mano che, facendo dondolare la culla, regge e culla il peso del mondo.

Il volume è arricchito da quasi duecento foto in b/n in gran parte messe a disposizione dalla raccolta fotografica di Giuseppe Bonfitto, ma anche dagli originali disegni a matita di Giuseppe Ciavarella e dai disegni di Annalisa e Donato Nardella, senza dimenticare una significativa immagine fotoritoccata per la copertina in cui una mamma felice - anche se non si direbbe, ma una volta tutti i sentimenti erano contenuti - espone al sole la sua bambina tutta coperta (cummigghiata). La Galante in sintesi ci offre una SUA ancora di salvezza avvertendoci che spesso, le tradizioni e le credenze, ci aiutano a vivere meglio e più a lungo di quanto possa fare un consiglio… non richiesto.

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