Santa Fizzarotti Selvaggi: "Il posto del cuore, tra stereotipi e pregiudizi..."


Pubblichiamo qui di seguito la sintesi di un intervento della poetessa e psicoterapeuta Santa Fizzarotti Selvaggi nella sala Consiliare del Comune di Fasano per l'Inner Weel presieduto dalla prof.ssa Rosalba Manfredi. Vivace è stato il dibattito con i numerosi intervenuti compresi alcuni giovani.

Cosi leggiamo sui vocabolari

Stereotipo. /ste·re·ò·ti·po/: aggettivo e sostantivo maschile . Aggettivo relativo al sistema di riproduzione per stereotipia: lastre s.; edizione s.; fig., a proposito di una ripetizione o di una fissità immutabile: i soliti discorsi s. (più com. stereotipato). Tutto sembra accadere al di là della coscienza.

In psicologia, qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, cioè non acquisita sulla base di un'esperienza diretta e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi, su persone o gruppi sociali.

Il termine ci proviene dall’ambiente tipografico verso la fine del settecento per indicare la riproduzione di immagini a stampa; dal greco stereòs = rigido e tùpos = impronta. Il che significa che trattasi comunque di qualcosa di rigidamente. Di qui il lento sacrificio dell’Homo sentiens. Hume ci ricorda che “ La ragione è e può solo essere schiava delle passioni “ ( Hume) e io aggiungo della ripetitività

Il sacrificio dell’ homo sentiens

Siamo immersi negli stereotipi e non ne abbiamo spesso consapevolezza. Nel corso della storia il logocentrismo occidentale è stato sostituito almeno in parte dall’eccesso del visuale e tutto ciò ha lentamente sacrificato l’homo sentiens. Questo sacrificio ha fatto sì che la percezione si omologasse e difensivamente si strutturassero gli stereotipi. In tal modo l’Io è stato sempre più annientato. Si pensi che Freud scrive “L’Io non è nettamente separato dall’Es, ma sconfina verso il basso fino a confluire in esso".

In definitiva possiamo forse affermare che si è diventati incapaci di pensare autonomamente e il sentire è stato asservito alla stereotipia dominante. Si pensi ai necrologi in cui inconsapevolmente si sottolinea con il proprio ricordo sovrapposto al ricorso dell’altro che “tu sei morto” e "Io sono vivo". Scrive A. Semi che “Gli affetti del lutto sono vari". 

Siamo in una epoca postcorporea per cui i sensi, la sensorialità che modella la nostra mente è stata per così dire asservita alle complesse dinamiche della mercificazione da parte delle grandi lobby che intendono determinare il nostro libero sentire e l'ottica con cui vedere il mondo. Il dominio del visuale stereotipato ci acceca e non ne siamo consapevoli. Le rappresentazioni in noi non sono consce, ma ricordiamoci sempre che possono diventarlo.

Il nostro corpo che consente di toccare e vedere il mondo con occhi liberi e sempre nuovi è ora introvabile. Sono stati i Greci, a partire dal V secolo, a teorizzare il Logos come “armonia invisibile del visibile” : si trattava di una rappresentazione del mondo che oggi risulta stantia e appunto stereotipata. La nostra mente non è più plasmata dalle emozioni nella loro libertà ma viene resa sclerotica sì da impregnarsi di stereotipi e di conseguenza di pregiudizi.

In tal modo è venuto meno quel “corpo libidinale” che ci riconduce a Merleau Ponty . D’altra parte il desiderio come tale che nasce dall’assenza si è vanificato cedendo all’avidità che con il Desiderio poco ha a che vedere.

Rigidità difensiva o omologazione coercitiva?

Lo stereotipo è una raffigurazione rigida ed eccessivamente semplificata di un aspetto della realtà. Una caratteristica degli stereotipi è l’esagerazione nella raffigurazione.

Per renderci conto dell’esistenza degli stereotipi in ognuno di noi basti pensare a come spesso ci facciamo una idea di una persona, di un popolo… solo per sentito dire e non già per esperienza diretta, anche questa sempre discutibile perché in ogni modo siamo condizionati anche inconsapevolmente da tante cose.

Per esempio a volte ci ritroviamo a pensare che: gli inglesi hanno self control, i norvegesi sono algidi, gli spagnoli sono passionali, gli immigrati hanno sentimenti di rivalsa verso l’Occidente e così via…

Alcune batture umoristiche hanno creato immagini distorte della realtà di alcune professioni: i carabinieri, gli psicoanalisti, gli psichiatri.

Per non dire poi di un certo ageismo subdolo e serpeggiante, discriminatorio nei confronti di coloro che sono avanti con gli anni. Lo stereotipo finisce dunque per strutturare i pregiudizi non ultimo quelli di “genere”, vale a dire delle rappresentazioni riguardanti uomini e donne e bambini.

È evidente che alcuni sono innocui ma lo sono fino a un certo punto perché in ogni modo determinano comportamenti che possono variare inconsciamente: le antipatie, le simpatie, le ingiustificate ostilità, le discriminazioni, le emarginazioni. Divengono molto pericolosi quando si ghettizzano i popoli con il rischio di radicalizzare i sentimenti: si ricordino i genocidi atroci, dagli Armeni agli Ebrei a tutti quei popoli che la guerra e la miseria annientano. Gli Ebrei sono stati vittime, (e ancora in alcuni esistono delle resistenze) di pregiudizi che in genere prendono corpo e vigore proprio nelle rappresentazioni stereotipate.

È chiaro dunque che un’immagine stereotipata potrebbe alimentare il pregiudizio che a sua volta consolida lo stereotipo. Gordon Allport (1897-1967) ha approfondito questo tema nel suo fondamentale lavoro “La natura del pregiudizio “(1954). Egli sottolinea l’errore che è alla base di stereotipi e pregiudizi: si giudica qualcuno aprioristicamente proiettando sull’Altro le parti maligne di sé, come si apprende da Pontalis.

Si giunge così in maniera assai perigliosa a creare inquietanti categorie circa mestieri e professioni, appartenenze a classi sociali e a luoghi della terra.

La teoria dell’identità sociale si deve a Henri Tajfel (1919-1982) secondo il quale “includiamo noi stessi” in una classificazione di categoria: in tal modo definiamo la nostra identità sociale.

Leggiamo che “Il risultato di questa operazione consiste nella contrapposizione tra l’ingroup e l’outgroup, cioè nella divisione della realtà sociale tra chi rientra nel nostro gruppo di appartenenza e chi ne è fuori.

Pensiamo alle categorie con cui siamo soliti interpretare noi e gli altri: noi uomini/voi donne (e viceversa); noi italiani/voi stranieri; la nostra squadra/la vostra ecc.”

Non ci si mette più in gioco. Le persone di colore sono tutte in via di sviluppo, il che non è vero per niente: hanno la loro cultura dalla quale possiamo imparare tanto, i cinesi sono affaristi e così via… L'On .Tina Anselmi, che ricordo sempre con grande emozione , quando era presidente della Commissione Pari Opportunità sottolineò che valutiamo con il nostro metro , con il nostro sguardo la cultura altra: si riferiva alla pratica della infibulazione . Discorso questo che merita approfondimenti, Ma, Signori, per la costruzione della pace è necessario infrangere i pregiudizi nei confronti dell’altro, comprendendo che è nella libertà di pensiero, nella sospensione del giudizio, nell’uguaglianza dei diritti e dei doveri, nella reciprocità che l’uomo struttura se stesso creativamente all’interno della società.

Ma per essere, infatti, in pace con gli altri è necessario guardare innanzitutto prima dentro di sé e comprendere che viviamo tutti in un labirinto di specchi per cui proiettiamo fuori di noi le parti che di non accettiamo.

Si possono stemperare le polemiche, comprendere le ragioni altrui, accogliere senza timori e pregiudizi le diversità, mediare fra le culture ben consapevoli della propria storia e identità.

I conflitti sono, in realtà, il passaggio all’atto di profondissimi sentimenti distruttivi che non si sono trasformati in parola. Si pensi alle relazioni sentimentali: riduzione del campo della coscienza con impoverimento dell’Io e dunque della relazione. Dove le funzioni dell’Io? Dove i passaggi dalle rappresentazioni inconsce ai liberi pensieri? La pensabilità si frantuma Il termine razzismo andrebbe abolito perché non esistono razze: questo termine e i suoi antecedenti confermano un dato molto pregnante di ignoranza, non già di nozionismo, ma dell’ignorare che siamo fatti tutti indistintamente della stessa sostanza derivante da una unica donna , la ormai ben nota ai genetisti Eva mitocondriale .-

I meccanismi degli stereotipi e pregiudizi sono divenuti strumento di offesa. E’ difficile smobilitare tali pregiudizi anche perché i messaggi mediatici tendono a mantenerli per una questione meramente economica e dominio delle masse.

Ma attraverso l’educazione e la consapevolezza possiamo comprendere e limitare pregiudizi e stereotipi evitando valutazioni di sorta. Per esempio, è possibile educare a pensare di essere cittadini della terra e non già appartenenti al proprio endogruppo: urge difendere il valore della persona come tale. I diritti umani infatti non sono in alcun modo negoziabili.

Alcuni esempi di stereotipia Ho consultato in proposito una vasta bibliografia e anche Web grafia:si pensi alla mela che ora è simbolo di Apple ma che fino a qualche tempo addietro simbolo del peccato originale.

Ma in Genesi non è affatto scritto che si trattasse della mela, attribuzione successiva, forse all’Alto Medioevo. E forse per l’associazione tra la fecondità della natura e la generatività femminile, in quel tempo non conosciuta e pertanto misteriosa. In Grecia la mela fu “il pomo della discordia” tra le Dee e che Paride dovette assegnare alla più bella… Ma leggiamo anche che “se l’albero citato nel Genesi è l’Albero della Conoscenza tra Bene e Male (ovvero della conoscenza che rende liberi), forse l’attribuzione non fu poi così scorretta.

Tagliando una mela perpendicolarmente al suo piccolo, scopriremo che ciascuna metà rivela l’immagine di una stella a 5 punte inserita in un cerchio: simbolo del sapere e della conoscenza; e simbolo dell’uomo consapevole e in armonia con gli Elementi che lo compongono e che compongono il mondo che lo circonda.” (Cfr R. Graves, La Dea Bianca, Adelphi)

Si tratta dunque della conoscenza: "fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtude e conoscenza." (Dante)

…del Corpo femminile e i pregiudizi

Sappiamo, per esempio, dall’esperienza che il corpo femminile di qualsiasi etnia e provenienza culturale si esprime con un suo proprio linguaggio comune a tutte le donne: un linguaggio che comunque possiede uno spazio di inviolabilità. Qualcosa che tutti dobbiamo rispettare nella reciprocità delle varie culture, in modo da poter negoziare il proprio mondo con quello dell’Altro nel ricordo del legame con le nostre origini.

Ciascuna donna, da qualsiasi Paese provenga, ha una rappresentazione individuale del proprio corpo: una rappresentazione che è fortemente collegata all’ambiente di provenienza, alla cultura, alle tradizioni, all’accudimento ricevuto dalla madre nella prima infanzia.

Il che non significa che l’incontro con altre realtà sociali non possa facilitare una trasformazione libera e consapevole del prendersi cura di sé e di una rielaborazione del proprio sé corporeo e psichico.

Non si tratta, per esempio, di stabilire se le donne devono o no indossare il velo, nato anche da esigenze legate all’ambiente, quali il sole eccessivo, le tempeste di sabbia e così via, e che nel corso del tempo divenne anche simbolo di umiltà nei confronti del proprio Dio.

Oggi, per esempio, per alcune donne lo “hijab” può riparare da sguardi indiscreti. L’abito d’altra parte pone la distanza ed enuncia la forma della mente e della cultura di appartenenza.

Si tratta di comprendere le ragioni per cui tale velo è diventato un simbolo con un significato diverso da quello originario: strumento di controllo e di potere maschile sulle donne.

Una società che intende solo "acculturare" intende dominare l’Altro e non già comprenderne gli usi e i costumi. In realtà siamo talmente accecati dalla nostra difensiva arroganza che spesso non siamo consapevoli di violare ogni cosa. La società che non si accorge che il suo sguardo non è l’unico al mondo genera odio.

Vale a dire un sentimento capace finanche di vedere un Nemico dove non c’è. E spesso proiettiamo all’esterno il Nemico che abita dentro di noi (cfr. Pontalis).

Si tratta di costruire una cultura della transizione e della riflessione permanente sulla nostra stessa mutazione. Costruire pratiche di condivisione planetaria è oltremodo necessario. Una condivisione che tenga conto della Memoria che non deve subire soluzioni di continuità in modo che la perdita non sia irrecuperabile e che la lacerazione della stessa perdita sia in qualche modo rimarginabile… E d’altra parte tutti sanno che non c’è innovazione che non abbia radici nelle tradizioni.

Così come non c’è integrazione se l’Altro sperimenta una condizione di marginalità nei confronti della cultura ospitante: in tal caso, infatti, possiamo assistere ad un atteggiamento totalmente e difensivamente passivo nei confronti di chi ospita oppure «una assoluta rivendicazione della propria identità culturale ed etnica» con la conseguente facile radicalizzazione dei sentimenti. Coabitare con l’Altro, invece, facilita il nostro stesso processo evolutivo.

Tentare di ripensare il percorso del “femminile” con tutti i suoi significati è d’obbligo per una crescita reale della storia stessa dell’umanità alla ricerca di quella identità che prevede all’origine una interfecondità, poiché gli esseri umani costituiscono una sola specie, un solo genere, le cui diversità sono da attribuirsi alla meravigliosa azione dell’ambiente, della storia, della cultura… Essere nati in un Sud o in un Oriente è una occasionale condizione ambientale e sociale.

Urgente ci sembra recuperare gli antichi significati dell’essere donna in una società che usa sempre di più il corpo come merce di scambio, come oggetto di consumo.

Ma spesso è la donna stessa che, negando la natura della sua vera identità, firma la disfatta dell’essere femminile… Nel villaggio globale assistiamo talora alla disintegrazione e all’azzeramento della creatività femminile, che è invece uno straordinario strumento di integrazione e trasformazione. E non mi riferisco a quelle che definisco "arti del silenzio" quali il ricamo e il cucito che le stesse donne a volte scambiano per "Arte"… ma qui il discorso si fa molto complesso Non si tratta di edificare una cultura al femminile, bensì di superare le dicotomie che ancora vi sono tra cultura e dominio, tra cultura e potere.

La contrapposizione tra l’Uno e l’Altro deve necessariamente tradursi in un incontro, in un intreccio creativo, se non vogliamo ancora assistere a stragi di innocenti, alla traumatica interruzione della continuità, alla superifialità con cui si annuncia "il fine vita", macabro rituale di morte.

L’essere umano – l’entità – è un essere sconosciuto nella sua interezza, e forse mai potremo fino in fondo esplorare l’abissalità della sua mente e della sua psiche, dell’inconscio, che proprio perché tale, è appunto inconoscibile. Freud nella seconda topica psichica (1920) ci ha insegnato che nella natura umana agiscono tre istanze: l’Es o Id, l’Io-Ego e il Super Io - Super Ego.

L’Es o Id, ovvero il mondo delle pulsioni, l’indicibile, l’intraducibile si fanno parola nell’Io che a sua volta sorge sull’orizzonte sfuggente dell’Es; il Super-Io è la norma morale, il controllore delle leggi. E tanto più forte è l’Es tanto più terribile, forse crudele, sarà il Super-Io.

È l’ambiente facilitante e inferente che determina i processi di integrazione. Un ambiente che evidentemente interferisce con il nostro Sé più intimo, con il nucleo del Sé che è anche un Sé sinaptico (cfr. LeDoux). Il problema centrale dell’essere umano è l’Umanità, cioè la possibilità che l’uomo diventi Uomo senza stereotipi e pregiudizi, ma libero di sentire e di pensare. Ed è da questa consapevolezza che può nascere una nuova civiltà per ritrovare il posto del cuore.

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