Briciole di pane e d’amore a Bari

Jean-Alain/Pixabay

SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI
- Riflettendo dopo una gioiosa esperienza organizzata dal CIF provinciale guidato da Cristina Maremonti "Chiamateli Chef" in memoria di Giovanni Lacoppola. L’evento ha avuto luogo presso "La Madonnina Life & care" grazie alla generosa accoglienza del presidente dr. Alberto Nerini. Ha condotto Gianni Ciardo. Presidente della giuria: Renato Morisco.

Briciole di pane e d’amore.

Il bambino cerca la sua voce.
(L’aveva il re dei grilli).
In una goccia d’acqua
Cercava la sua voce il bambino.
(Federico García Lorca)

Il collega psicoanalista a me caro, Giovanni Losito, a fine giornata usava dirmi spesso che sentiva di aver nutrito i pazienti che a lui si rivolgevano.

Non c’è nutrimento, “arte culinaria”, né scienza senza conoscenza, né sapienza. Quella sapienza che in latino ha a che vedere con il verbo sàpere: il sapore delle cose! Aver o sentir sapore, quel sapore che si fa odore e diviene incorporeo nelle aree del cervello che genera la mente. Manno soggiunge che «il sapere partito dalla lingua deve alla lingua tornare e chi non sa esprimere bene quello che sa, e quasi come se non sapesse».

La sofferenza: quel soffrire profondo a volte senza luce che rende la vita buia come la notte può essere rischiarata da alcune briciole di pane e di amore. Ma è nella quotidianità, che incontriamo tutto ciò che è straordinario ma di cui spesso non abbiamo alcuna percezione e consapevolezza a causa di un eccesso di condizionamenti mediatici.

L’idea della convivialità evoca nella nostra mente una mensa: ma non sono le donne che in genere preparano la mensa per nutrire i loro figli, le persone care?

Ci nutriamo tutti gli Uni degli Altri...

In questo mio vagabondare nella cultura dello star bene nel corpo e nella mente attraverso il cibo ho scoperto la possibilità che si può essere diversamente creativi e dunque, come scrive Winnicott, “portare ad esistere” parti di sé, sentirsi vivi.

In questa dimensione si entra in sintonia con l’altro ritrovando il materno perduto.Le attività proprie del femminile, oggi ritenute da alcuni ormai desuete quasi fossero una “diminutio”, quali il cucito, il ricamo, il lavoro a maglia sono forse invece parte integrante di quell’identità femminile negata, a volte violata, oltraggiata.

Penelope attese Ulisse tessendo la tela del tempo. Un tempo di attesa carico di germinazioni transferali capaci di riaccendere la relazione. Il che vuol dire ricostruire insieme non già solo la coordinata spaziale di una casa, bensì la coordinata temporale e dinamica di una “casa psichica”, in cui sentirsi a proprio agio e cominciare a guardare oltre le barriere delle personali difese, le torri d’avorio in cui a volte ci si trova imprigionati.

Per esempio l’idea di raccogliere alcune ricette ritrovate nei cassetti delle credenze delle antiche cucine scaturisce probabilmente dalla necessità di riflettere sul valore delle tradizioni familiari e dell’opera femminile all’interno di un contesto sociale oggi omologante e per alcuni aspetti negante sentimenti ed emozioni. Qualcosa di arcaico che si tramanda sin dall’alba dei secoli e che riguarda l’intera costellazione familiare dalla quale dipende il futuro dell’individuo e dell’umanità. Naturalmente trattasi di tematiche molto articolate che riguardano aspetti psichici, sociali e pedagogici.

La presenza fluttuante delle figure genitoriali, in modo particolare della madre spesso impegnata fuori casa per problemi lavorativi, non facilita nel bambino quel rapporto con se stesso che si pone come base per le relazioni con il mondo esterno: con l’Altro da sé.

La cosiddetta arte culinaria , che a volte evoca ed invoca “segreti di famiglia” che in realtà sono sempre di pubblico dominio - una sorta di segreto di Pulcinella, invita a ripensare il grande significato che per il bambino ha il nutrimento in tutti i suoi aspetti. Il cibo preparato dalla mamma, tramandato attraverso ricette pervenute da un tempo lontano, consente di costruire quell’ambiente accogliente, pieno di sicurezza e amore, che sostiene lo sviluppo dell’Io lungo le linee della tradizione, in modo che il bambino possa affrontare la realtà nei suoi cambiamenti.

Questo ci sembra il senso più profondo dell’incontro con le ricette tradizionali oppure di nuovo conio , se pur poco precise, delle mamme, delle zie, delle nonne, delle amiche, delle donne nate in Paesi fra loro apparentemente lontani che nella quotidianità si incontrano nel luogo più amato dai bambini: il focolare domestico con l’acqua, il lievito, la farina, il grano, il pane... Le tradizioni culinarie sono, infatti, il risultato della storia dell’essere umano nella sua dimensione integrata di corpo e psiche, mente e cuore.
Naturalmente molti dicono che “come cucinava la mamma” non ha mai cucinato nessuno. E chi scrive in primis…

Freud afferma: “L’amore della madre per l’infante che essa allatta e cura è qualcosa di molto più profondo della sua successiva affezione per il bambino che sta crescendo. La sua natura è quella di un rapporto d’amore totalmente soddisfacente, che appaga non solo tutti i desideri spirituali, ma anche tutte le esigenze corporee (…)”

Il cibo, invero, si colloca tra Prometeo ed Hestia.

In realtà quando mi accade di pensare al cibo mi vengono in mente una serie di considerazioni sull’elemento “fuoco”. Prometeo rubò la scintilla del fuoco a padre Zeus ed Hestia, la dea del focolare, lo custodì.

Hestia, la cui radice deriva dal sanscrito Vas e indica in qualche modo l’“abitare”, rappresenta le immagini che le donne trasmettevano intorno al fuoco mentre trasformavano il crudo in cotto (cfr. Lévi-Strauss). Un abitare che ha relazione con la cucina, il luogo in cui avvengono le trasformazioni grazie all’elemento fuoco.

Hestia, fra tutte le dee, non ha mai partecipato a guerre e contese: ha sempre difeso gli affetti. Rappresenta, cioè, quel nucleo femminile che ancora, nonostante gli eventi, ci consente di continuare a sperare nella centralità della famiglia, del focolare, del sedersi a tavola tutti insieme. Virginia Wolf scrive: Uno non può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene. Niente di più vero di questa affermazione.

Noi siamo quello che mangiamo, in tutti i sensi, come dice Ludwig Feuerbach, e come dicevano anche gli antichi Cinesi.

Il cibo da noi ingerito viene “trasformato” dal fegato. Ricordando il mito di Prometeo non si può non notare che un’aquila gli divorava il fegato, un organo che si rigenera e che non a caso è la metafora della creatività. Il cibo si trasforma in pensiero e mente. Non c’è nulla che susciti più invidia della creatività che ci par di vedere nell’altro: non a caso il detto popolare, evocando il mito, afferma che «ci si rode il fegato».

Non vi è dicotomia tra Natura e Cultura, non vi è cibo che in qualche modo non ci emozioni. E sono le emozioni insieme a tutti i processi biochimici che sollecitano le sinapsi, i neurotrasmettitori, che strutturano la nostra identità. I geni ci rendono uguali e ci differenziano mentre l’ambiente interagisce con il codice genetico e le proteine che, affermano gli scienziati , dialogano fra loro determinando i collegamenti neuronali. Natura e Cultura in costante interrelazione effettuano cambiamenti nelle sinapsi la cui plasticità è facilitata dalle emozioni. Il cibo e le ricette non certo fini a se stessi , raccontano la storia di popoli, il loro incontrarsi intorno al focolare, le loro difficoltà, ricchezze, miserie, povertà.
In realtà il cibo ci pone poi in contatto con il mondo esterno e ha a che vedere con le relazioni: tutti siamo stati in qualche modo allattati dalle madri per molto o poco tempo. Certo questa è una esperienza condivisa da quasi tutti gli esseri umani.

Il focolare, dunque, è il luogo della mediazione tra l’uomo, la natura e la cultura con conseguente trasmissione di sapori e saperi. La cucina è il luogo in cui tutto si incontra e si trasmuta vicendevolmente (cfr. Aldo Ferrari Pozzato).

Per la cultura indigena, secondo Levi Strauss, la cucina è concepita come una mediazione tra uomo e natura fino a stabilire un’equazione fra “cotto” e “socializzato”. Il fuoco celeste da distruttore diventa creatore nella cottura del cibo. E la salute è sempre stata associata in qualche modo, oltre che ad equilibri ancor oggi sconosciuti, al modo di alimentarsi.

Il Talmud tratta spesso, per esempio, dei vari cibi in relazione allo star bene. Sembra, per esempio, che essendo stato il pane il sostegno dell’esistenza, questo sia sempre stato investito di socialità. Il Talmud aggiunge anche che se un uomo comincia la giornata a stomaco pieno sarà capace di pensare con chiarezza e lavorare meglio.

Oscar Wilde ha scritto che: Dopo un buon pranzo, si può perdonare tutto, persino i propri parenti. Ovviamente trattasi di un buon pranzo, di ricette raffinate pur della tradizione.

Ecco, questa affermazione può generare tante associazioni che riconducono al tema di fondo del nostro rapporto con il cibo.

Ma chi dobbiamo davvero noi perdonare? La psicoanalista Melanie Klein, a riguardo, ha approfondito tematiche fondamentali.

Noi tutti siamo il frutto delle nostre madri, del loro nutrimento e delle loro tecniche di accudimento. Siamo il risultato di molte vite, pregne di emozioni e di storia. Nel rispetto proprio del ruolo femminile, e al di là di qualsiasi modello stereotipato e mediatico personalmente rivolgo sempre l’attenzione alle sofferenze della donna che, spesso, si consumano ancora oggi nelle mura domestiche, nel luogo che racchiude i segreti familiari, le lacrime di gioia e di dolore.

Da sempre la vita dell’essere umano è fondata sul cibo. Il suo peregrinare da un paese all’altro, dal deserto al mare ha avuto lo scopo di migliorare la propria esistenza, di cercare gli alimenti per sopravvivere in modo da poter costruire villaggi e città, godere della natura e delle arti. Ma sin dagli albori della storia alle donne è toccato il compito di preparare i cibi, cuocere le carni, condire le verdure. In questo modo esse hanno sempre nutrito la famiglia, come se il loro seno non fosse mai privo di latte, prolungando nel tempo il loro prendersi cura di tutti. Ed è proprio il seno l’oggetto primario invidiato dal bambino.

Il cibo è metafora del dono d’amore, dell’erotico materno, dell’incontro con l’Altro, di un linguaggio condivisibile e condiviso. Il cibo nei bambini causa sofferenze e motivo di odio: provoca infatti la sensazione di piacere durante l’allattamento un piacere che però non è eterno. Nell’allattamento vi sono orari precisi. Quando le mamme non sono sollecite, nel bambino viene a generarsi una condizione di rabbia e impotenza con relativo desiderio distruttivo nei confronti dell’oggetto d’Amore. Per di più il bimbo non sa se quella fonte di piacere tornerà o meno, e quando tornerà.È infatti la madre che organizza la vita del bambino e ne facilita l’immaginario proprio nei momenti dell’assenza, aprendo le porte alla costruzione del simbolo. La stessa fonte del piacere e dell’amore si trasforma nel modello dell’odio. «L’odio per aver tolto, rubato, sottratto l’oggetto poco prima donato con tanto amore».La storia dell’essere umano è la partitura complessa di tale ineludibile rapporto Una qualsiasi frustrazione relativa al nutrimento fa sì che il bambino sviluppi dentro di sé l’idea di un seno cattivo e di un seno buono con relativo emergere della rabbia, degli impulsi distruttivi, dell’invidia nei confronti di colei che possiede la fonte del bene, della felicità, della gioia.L’invidia, se non viene trasformata in amore e gratitudine, facilita l’insorgere di aspetti problematici, rende difficile la ricostruzione dell’oggetto buono dentro di noi e ci spinge spesso al desiderio di distruggerlo. Fantasmaticamente, a volte, pensiamo di aver danneggiato l’oggetto d’amore e finanche di averlo smarrito per sempre. La perdita, il lutto e la mancanza, se non elaborati, conducono alla depressione.

Il nutrimento materno è per il bambino l’equivalente della possibilità di essere creativi. Ma la creatività, come già osservato, è la fonte maggiore dell’invidia. La madre è l’oggetto d’amore invidiato: il senso di colpa che ne deriva può sollecitare l’atto riparativo che avviene con un processo simile al sogno proprio tramite vari percorsi creativi.

In tale contesto discutere di arte culinaria senso ha se si vuol comprendere che trattasi della metafora di quell’alchimia biologica che trasforma “il sangue in latte”, nonché il luogo creativo all’interno del quale poter incontrare la madre per essere la Madre, non solo biologica, ma simbolica con ampia condivisa e conviviale genitorialita’.

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