Altamura e le sue antiche origini… albanesi

(Ritrovamenti dell'Altamura peuceta - per gentile concessione del Museo Nazionale Archeologico di Altamura)

ROBERTO BERLOCO - 
ALTAMURA. Vien da sé. Uno dei maggiori motivi dell’orgoglio di appartenere alla comunità altamurana, sta nella consapevolezza della rifondazione medievale della città per volere di uno dei monarchi più illuminati del passato, quel Federico II di Svevia che, per la magnificenza della sua visione, va universalmente noto con l’appellativo di “Stupor Mundi”.

Probabilmente, però, tra quegli stessi motivi, ve n’è un altro più in disparte, intimidito da maggiori profondità temporali, e, per questo, meno afferrabile dalla mano sensibile della memoria, per quanto non ne manchi una scritta, riconducibile soprattutto ai due dei principali cronachisti locali più autorevoli, ma pure più risalenti: il giurista Domenico Santoro, il quale scrive sul finire del XVII secolo, e il chierico Vitangiolo Frizzale, che si diletta con la penna intorno alla metà del XVIII (anche se, per molti contenuti, questi attinge sostanzialmente al primo). Ambedue narrano della propria patria civica partendo da quelle che possono passare per le sue radici leggendarie, dando peso all’intreccio della nascita dell’originaria urbe con nobili personaggi dell’Iliade, o, comunque, con genìe emerse da remotissime storie votate all’infinita eco del mito.

A determinare le loro riflessioni storiche sono ovviamente anche i loro tempi, caratterizzati dall’assenza di una scienza archeologica in termini attuali e dall’affidamento sistematico alle fonti classiche. Viene così citato il nome di Petilia o di Altilia, ad indicare quel centro urbano che resistette fedele a Roma mentre Annibale scorrazzava tra le campagne pugliesi, umiliando le legioni dei Consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone nella battaglia di Canne. E, sulla base di diverse tracce superstiti di quel che fu l’insediamento pre-romano, vengono mosse sensate deduzioni. Come quella, ancor oggi giudicata credibile dalla storiografia locale, che chiama in causa l’influenza dorica della vicina Taranto, testimoniata dalle statue di Castore e Polluce, oggi non più esistenti ma visibili ancora in epoca coeva al Santoro. Insieme, esse adornavano i lati del Coro della Cattedrale e venivano ricondotte a quel che doveva rimanere di un antico tempio pagano che sorgeva proprio laddove - e, con tutta probabilità, non a caso - si decise la costruzione della Chiesa Madre dedicata a Santa Maria Assunta.

Alle quantità di reperti che affioravano in superficie - spesso casualmente, a seguito di lavori di fabbricazione - e che portavano Santoro e Frizzale a connettere l’idea delle origini mitiche con la certezza di una influenza o, addirittura, di una vera e propria presenza greca che dettasse l’identità del fondante insediamento urbano, gli strumenti e le conoscenze della scienza contemporanea applicano definizioni fondate, classificazioni precise e affidabili, consentendo un’opera di riconoscimento impensabile in certi passati remoti. Sono pertanto voci autorevoli d’oggi a dirci che quel nucleo di uomini e di donne che ebbe ad abitare dentro mura un dì possenti, altri non furono che “Peucezi”, un ceppo etnico non greco e neppure autoctono, ma proveniente da quell’area della penisola balcanica detta Illiria, da cui si vuole, per tradizioni scritte ed evidenze archeologiche, siano provenuti in Puglia anche i popoli dei Dauni e dei Messapi. Rispettivamente, i primi stabilitisi nell’attuale Terra di Bari, i secondi nel Settentrione apulo, gli ultimi in quel che oggi è chiamato Salento, e che, in era romana, venne conosciuto come Calabria (mentre l’attuale Calabria era chiamata Bruzio).

A confermare questa tesi, d’altronde, è anche la stessa latitudine. Le coste pugliesi sono infatti speculari a quelle balcaniche e a quelle di nessun altro suolo. Per maggior esattezza, la Puglia è quasi perfettamente simmetrica alle spiagge di quella che, oggi, è chiamata Albania, e quelle della Terra di Bari guardano proprio verso le corrispondenti che stanno nel mezzo della Terra delle Aquile. Ecco anche perché non si può evitare il corollario che, in particolare, la provenienza geografica della fetta d’Illiri detti Peucezi sia d’allocare, con piena certezza, nel territorio albanese di migliaia di anni fa.

E ancora, facendo base su somme di risultati della ricerca archeologica, va realizzato che queste moltitudini, talvolta comprese nella più ampia definizione di Japigi ed emigrate da lidi balcanici a partire dal X secolo a.C., non abbiano raggiunto le lande pugliesi in una sola ondata, e, soprattutto, non abbiano subito trovato territori del tutto liberi che si siano limitati ad occupare. All’interno del Tacco del tempo, difatti, stanziavano già popolazioni autoctone di matrice preistorica, delle quali si conservano attualmente impronte che affondano fin nel Paleolitico. Non sono dunque da escludere due ipotesi egualmente credibili: che, all’atto di ogni loro insediamento, gli Illiri avessero trovato resistenze, comunque infine sedate, oppure che i rapporti siano stati subito pacifici, anche per via della scarsa densità demografica a fronte di spazi che, per l’epoca, dovevano risultare estremamente ampi. Tanto, ovviamente, andrebbe a valere pure per il settore peuceta, e, dunque, per la composizione della comunità della primitiva Altamura, dove non si può escludere che insistesse una presenza etnicamente eterogenea, ma permeata dalla cultura illirica del suo gruppo principale o dominante.

Sono diverse, poi, le ipotesi che potrebbero spiegare la scelta d’una tribù peuceta a quella data altura dove sarebbe sorta l’acropoli, i cui resti diroccati, più di un migliaio di anni dopo, ebbero ad attrarre il regnante svevo al punto da deciderlo a farlo risorgere col nome di Altamura: le caratteristiche d’una migliore difendibilità, la ricchezza di sorgenti d’acqua del territorio immediatamente circostante (come testimonia lo stesso Santoro nella sua descrizione della città), la vicinanza relativa con altri insediamenti peuceti, come quello di Monte Sannace (Gioia del Colle) o Sidion (Gravina in Puglia), o chissà, qualche particolare significato sacrale che il luogo dovesse ispirare.

Certo, verrebbe spontaneo da domandarsi quale potesse essere la vita all’interno di quella cittadina primigenia, che genere di leggi fossero in vigore, chi amministrasse la giustizia e con quali canoni, che rapporti corressero tra i ceti sociali. La curiosità sarebbe legittima, ma destinata a non trovare lo sfogo di una risposta, a causa della sostanziale assenza di fonti.

Si può congetturare che il greco venisse capito e, forse, anche parlato, ma della lingua peuceta di quel fondo d’umanità che abitò i primi strati della futura Altamura, non si hanno indizi, come non se ne hanno - o se ne hanno di assai sporadici - dell’illirico parlato nella fascia balcanica. In effetti, a parte ciò che rimane in fortificazioni murarie, alcuni perimetri di abitazioni, utensili, gioielli, oggetti d’artigianato, vasi e cocci di vasi, l’unico dato che può esser battuto per certo è l’origine etnica di quella popolazione - o, quanto meno, della sua compagine maggiore - alla quale, dunque, si può attribuire un rapporto di parentela genetica sicura con quella albanese odierna.

Al giorno d’oggi, però, nella comunità altamurana, questa consapevolezza appare ancora rara, per quanto, grazie anche alla diffusione sempre più ampia della storia locale nelle scuole, il termine “Peuceta” sia divenuto familiare a fette sempre più larghe della popolazione.

Sembra infatti conservarsi ancora indifferente lo sguardo dell’Altamurano nei confronti degli immigrati Albanesi, malgrado oggi rappresentino una fetta ormai importante della collettività residente. Probabilmente, anche una conseguenza delle maggiori rappresentazioni che, della città e delle sue seconde origini, si producono con cadenza costante. Un esempio sopra tutti è quello del “Federicus”, un’affascinante rievocazione che, ogni anno, chiama in causa proprio le ascendenze sveve della Città del Pane.

Rimane, dunque, allo stato di opportunità da cogliere che si possano riscoprire sempre più le radici che queste origini incarnano, attraverso un serio processo di coscienza e di acculturamento. Perché non v’è crescita di un albero che si voglia fruttifero se, appunto alle sue radici, non giunga adeguato nutrimento, e perché, solo nelle proprie radici, si raccoglie, prezioso e irriproducibile, quell’humus spirituale che fa l’identità di una città.

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