A Mola di Bari gli Schizzi dal vero dell’artista Antonio Palumbo raccontano… ‘storie sanguigne’
FILIPPO MARIA BOSCIA - Sabato 12 aprile ho convinto il vecchio amico
Gianni Cavalli ad accompagnarmi a Mola di Bari per visionare la Mostra
Antologica del Maestro Antonio Palumbo dal titolo “50 anni di Schizzi e Studi
della Figura dal vero”: in sostanza una selezione delle sue opere, esposte
anche all’estero, a partire dalla sua prima collettiva presso la Fiera del
Levante, nel 1972 appena ventenne.
Il motivo per cui mi sono rivolto a Gianni è semplice: lui si sente particolarmente legato alla cittadina posta a 5 m s.m., il cui toponimo può derivare dal latino molum (molo, diga) o dal greco ’molos’ (fortezza) o da ‘maulum’ che indica gli enormi cumuli di pietra di epoca preistorica di cui è pieno il territorio che circonda l’abitato. Gianni così scriveva su un libro, pubblicato dalla sua Levante, dal titolo “Il mondo nuovo” di uno scrittore molese: “… sono grato ai ragazzi e le ragazze molesi che, negli ultimi anni ’60 del secolo scorso, mi hanno aiutato a superare un momento particolarmente critico e difficile della mia vita…”.
La mostra collocata presso la Pro Loco, in piazza XX settembre 58, è visitabile dal 10 al 16 aprile dalle 18,30-20,30 nella formula ingresso libero.
Gianni ha parcheggiato in un posto impossibile sul lungomare ed io ho preferito fare un veloce excursus per i vicoli della parte vecchia che ti abbracciano, stringono, allacciano con la loro presenza, testimoniata in maniera linda, e che sembra celare ed attenuare una vecchiaia inconfutabile e pur accettabile anagraficamente. Raggiunto il castello - fu Carlo d’Angiò a volerlo nel 1278 ed affidarne la realizzazione a Pietro d’Angicourt e Giovanni da Toul, mentre si devono a Carlo V, in un successivo intervento ad opera di Evangelista Menga, le mura a scarpata e i massicci baluardi angolari. Gianni ha percepito la mia stessa impressione visiva: una simile opera necessita di cura continua non solo da parte dall’Amministrazione comunale, ma anche dall’amore dei cittadini che con il loro impegno quotidiano possono far rifiorire e perpetuare nel tempo tale capolavoro architettonico: “Possiamo considerare la nostra anima come un CASTELLO composto da un solo diamante” (Madre Teresa).
Prima di entrare nella sede della Pro-Loco la nostra attenzione è stata carpita dallo splendido Palazzo Roberti-Alberotanza, situato a sinistra di chi guarda, con in bella mostra particolari decorativi di gusto barocco: i ricordi del mio amico, lontani nel tempo, segnalano all’interno maestosi soffitti dipinti. Molti lo conoscono come il Palazzo delle ‘Cento Camere’: costruito nel XVIII secolo su progetto dell’architetto Ruffo da Cassano, allievo del famoso Luigi Vanvitelli (Napoli 1700-Caserta 1773).
Il maestro Antonio Palumbo ha pregi e i difetti dei cittadini molesi: disposti ad ascoltare tutti, ma convinti di avere l’ultima parola; nel caso specifico l’artista, però, dispone di una vasta gamma di argomenti, frutto di studio e preparazione, per cui risulta piacevole lasciarsi guidare.
Sulla definizione di schizzo si è tutti in sintonia: idea immediata di un’opera figurativa, ritratta con pochi tratti di matita, penna, pennello, colore o creta; la rapida intuizione dell’artista (pittore, scultore, architetto) che fissa un qualcosa, con il proposito di svilupparlo in un secondo momento.
La mia curiosità mi ha spinto a cercare un carboncino su carta e Gianni mi ha indicato un’opera cm. 60x60 titolata ‘Grande nudo’, che rivista poi in macchina. al ritorno, riprodotta sul catalogo della mostra mi ha convinto che le opere vanno ammirate al naturale, altrimenti perdono sostanza e comunicazione.
Il carboncino è una tecnica particolare che si ottiene dalla lenta combustione di bastoncini filiformi di legno, quasi sempre salice o betulla, che, fatti raffreddare, vengono collocati in una canna o legati all’estremità di un bastone. E’ una tecnica che ci viene tramandata dall’epoca preistorica perché si può facilmente cancellare e correggere, ma è anche pur vero che proprio questo è un difetto perché procura scarsa stabilità. Tintoretto (Jacopo Robusti, Venezia 1518-1594) per migliorare la scarsa stabilità, dovuta al materiale friabile impiegato, si serviva dello spruzzo con gomma arabica; bisogna attendere il XIX secolo per la comparsa delle resine e dell’alcool. Secondo Gianni l’opera di Palumbo gli ricordava il pittore Mario Sironi (Sassari 1885-Milano 1961) e la sua famosa ‘Cerere’, carboncino su carta intelata.
Molto eleganti nella loro fierezza anche le ‘sanguigne’ (deve il nome all’impasto formato da argilla ferruginosa di colore rossiccio) chiamate Rosanna e lo Studio per “Crucifige” dove un 50x70 di grafite e sanguigna invita ad una riflessione in cui sfrontatezza e imbarazzo vengono attenuati sapientemente dal colore e sta a noi valutare lo sforzo dell’artista nel rendere accettabile il tutto, magari rifacendoci a quella frase che recita:”Ciò che è la vertigine per il corpo è l’imbarazzo per lo spirito”.
Da segnalare secondo i ricordi della mia memoria uno “Studio di interno” definito biro-acquerellato, che ricorda a noi la casa, la famiglia e il luogo in cui rifugiarsi quando sembra che il mondo ti neghi consensi e ‘consolazioni’. Tutte le tempere su carta sono molte belle e dimostrano le qualità artistiche di Palumbo che forse ha studiato presso l’Istituto d’Arte di Bari nel periodo migliore per creatività, entusiasmo e corpo docente.
Sono rimasto ben impressionato da un ‘Nudo maschile’ contrassegnato con il numero 41, nel formato cm. 60x80, tecnica gessetti cerosi, dove io intravedo non un uomo nudo, ma una persona che mette a nudo la sua anima per ricordarci che un corpo naturale può non essere bello, ma mai essere volgare. Poi se vogliamo rendere il tutto più piacevole non ci resta che farci ‘illuminare’ da Wilde: “ L’anima nasce vecchia ma diventa giovane: :questa è la commedia della vita. Il corpo nasce giovane ma diventa vecchio: questa è la tragedia della vita”. Artisti o semplici estimatori dell’arte possono ricavarne conclusioni attinenti al proprio modo di intendere il ciclo della vita.
Gianni è rimasto colpito dall’opera “Modella”, pastelli cerosi, forse perché influenzato da un particolare che vi riferirò, in cui è stato involontario protagonista per una ‘battuta’ tanto innocua, quanto… italiana.
Prima vi comunico che il genere di pittura chiamato pastello è eseguito di solito su carta: quelli denominati a cera sono composti da un legante a base cerosa che contribuisce a rendere l’opera quasi translucida con una gradevole… ‘profumazione’. La pasta ricavata ha tre diverse gradazioni: morbida, semidura e dura. Mi sembra superfluo precisare che oggi si trova in commercio una vasta gamma di tutti i prodotti necessari e pronti per l’uso.
Gianni una sera discutendo di pastello si lasciò sfuggire “ chiaramente l’etimologia ci porta ad una chiara origine italiana ‘pasta’ …”, ma qualcuno non fu in sintonia. Poi, documentatosi meglio, venne a sapere che Leonardo da Vinci a proposito del pastello e del modo di colorire a secco, precisa che apprese la tecnica a Milano nel 1499 dal francese Jean Perréal, pittore e architetto più noto come Jean de Paris.
Mi sono ripromesso di vedere in seguito con più calma, 55 minuti non sono sufficienti, i lavori per sentire dalla viva voce di Palumbo: descrizione, esposizione, narrazione, spiegazione e rappresentazione. L’artista molese è un uomo di profonda e vasta cultura, che continua ad arricchire cimentandosi nella pubblicazione di libri (con Antonio Abatangelo ha pubblicato il “Vocabolario Etimologico Illustrato del Dialetto Molese”, perfezionato anni dopo con le “Postille”, senza dire che negli ultimi anni del secolo scorso si era cimentato con “Canti Popolari Molesi”) e nei disegni che realizza giornalmente, seguendo il suo istinto fanciullino che lo porta a meravigliarsi di ogni opera del Creato che lo circonda.
Spero in una mia prossima visita a Mola di poter ammirare e apprezzare con meraviglia uno Studio dal vero del Teatro dedicato a Niccolò Van Westerhout, di cui Antonio Palumbo dimostra di aver studiato quasi tutto e sapere tantissime cose che vanno tramandate perché la storia che ‘scriviamo’ tutti i giorni si nutre di fatti, tradizioni e … storia vissuta in precedenza.
Il motivo per cui mi sono rivolto a Gianni è semplice: lui si sente particolarmente legato alla cittadina posta a 5 m s.m., il cui toponimo può derivare dal latino molum (molo, diga) o dal greco ’molos’ (fortezza) o da ‘maulum’ che indica gli enormi cumuli di pietra di epoca preistorica di cui è pieno il territorio che circonda l’abitato. Gianni così scriveva su un libro, pubblicato dalla sua Levante, dal titolo “Il mondo nuovo” di uno scrittore molese: “… sono grato ai ragazzi e le ragazze molesi che, negli ultimi anni ’60 del secolo scorso, mi hanno aiutato a superare un momento particolarmente critico e difficile della mia vita…”.
La mostra collocata presso la Pro Loco, in piazza XX settembre 58, è visitabile dal 10 al 16 aprile dalle 18,30-20,30 nella formula ingresso libero.
Gianni ha parcheggiato in un posto impossibile sul lungomare ed io ho preferito fare un veloce excursus per i vicoli della parte vecchia che ti abbracciano, stringono, allacciano con la loro presenza, testimoniata in maniera linda, e che sembra celare ed attenuare una vecchiaia inconfutabile e pur accettabile anagraficamente. Raggiunto il castello - fu Carlo d’Angiò a volerlo nel 1278 ed affidarne la realizzazione a Pietro d’Angicourt e Giovanni da Toul, mentre si devono a Carlo V, in un successivo intervento ad opera di Evangelista Menga, le mura a scarpata e i massicci baluardi angolari. Gianni ha percepito la mia stessa impressione visiva: una simile opera necessita di cura continua non solo da parte dall’Amministrazione comunale, ma anche dall’amore dei cittadini che con il loro impegno quotidiano possono far rifiorire e perpetuare nel tempo tale capolavoro architettonico: “Possiamo considerare la nostra anima come un CASTELLO composto da un solo diamante” (Madre Teresa).
Prima di entrare nella sede della Pro-Loco la nostra attenzione è stata carpita dallo splendido Palazzo Roberti-Alberotanza, situato a sinistra di chi guarda, con in bella mostra particolari decorativi di gusto barocco: i ricordi del mio amico, lontani nel tempo, segnalano all’interno maestosi soffitti dipinti. Molti lo conoscono come il Palazzo delle ‘Cento Camere’: costruito nel XVIII secolo su progetto dell’architetto Ruffo da Cassano, allievo del famoso Luigi Vanvitelli (Napoli 1700-Caserta 1773).
Il maestro Antonio Palumbo ha pregi e i difetti dei cittadini molesi: disposti ad ascoltare tutti, ma convinti di avere l’ultima parola; nel caso specifico l’artista, però, dispone di una vasta gamma di argomenti, frutto di studio e preparazione, per cui risulta piacevole lasciarsi guidare.
Sulla definizione di schizzo si è tutti in sintonia: idea immediata di un’opera figurativa, ritratta con pochi tratti di matita, penna, pennello, colore o creta; la rapida intuizione dell’artista (pittore, scultore, architetto) che fissa un qualcosa, con il proposito di svilupparlo in un secondo momento.
La mia curiosità mi ha spinto a cercare un carboncino su carta e Gianni mi ha indicato un’opera cm. 60x60 titolata ‘Grande nudo’, che rivista poi in macchina. al ritorno, riprodotta sul catalogo della mostra mi ha convinto che le opere vanno ammirate al naturale, altrimenti perdono sostanza e comunicazione.
Il carboncino è una tecnica particolare che si ottiene dalla lenta combustione di bastoncini filiformi di legno, quasi sempre salice o betulla, che, fatti raffreddare, vengono collocati in una canna o legati all’estremità di un bastone. E’ una tecnica che ci viene tramandata dall’epoca preistorica perché si può facilmente cancellare e correggere, ma è anche pur vero che proprio questo è un difetto perché procura scarsa stabilità. Tintoretto (Jacopo Robusti, Venezia 1518-1594) per migliorare la scarsa stabilità, dovuta al materiale friabile impiegato, si serviva dello spruzzo con gomma arabica; bisogna attendere il XIX secolo per la comparsa delle resine e dell’alcool. Secondo Gianni l’opera di Palumbo gli ricordava il pittore Mario Sironi (Sassari 1885-Milano 1961) e la sua famosa ‘Cerere’, carboncino su carta intelata.
Molto eleganti nella loro fierezza anche le ‘sanguigne’ (deve il nome all’impasto formato da argilla ferruginosa di colore rossiccio) chiamate Rosanna e lo Studio per “Crucifige” dove un 50x70 di grafite e sanguigna invita ad una riflessione in cui sfrontatezza e imbarazzo vengono attenuati sapientemente dal colore e sta a noi valutare lo sforzo dell’artista nel rendere accettabile il tutto, magari rifacendoci a quella frase che recita:”Ciò che è la vertigine per il corpo è l’imbarazzo per lo spirito”.
Da segnalare secondo i ricordi della mia memoria uno “Studio di interno” definito biro-acquerellato, che ricorda a noi la casa, la famiglia e il luogo in cui rifugiarsi quando sembra che il mondo ti neghi consensi e ‘consolazioni’. Tutte le tempere su carta sono molte belle e dimostrano le qualità artistiche di Palumbo che forse ha studiato presso l’Istituto d’Arte di Bari nel periodo migliore per creatività, entusiasmo e corpo docente.
Sono rimasto ben impressionato da un ‘Nudo maschile’ contrassegnato con il numero 41, nel formato cm. 60x80, tecnica gessetti cerosi, dove io intravedo non un uomo nudo, ma una persona che mette a nudo la sua anima per ricordarci che un corpo naturale può non essere bello, ma mai essere volgare. Poi se vogliamo rendere il tutto più piacevole non ci resta che farci ‘illuminare’ da Wilde: “ L’anima nasce vecchia ma diventa giovane: :questa è la commedia della vita. Il corpo nasce giovane ma diventa vecchio: questa è la tragedia della vita”. Artisti o semplici estimatori dell’arte possono ricavarne conclusioni attinenti al proprio modo di intendere il ciclo della vita.
Gianni è rimasto colpito dall’opera “Modella”, pastelli cerosi, forse perché influenzato da un particolare che vi riferirò, in cui è stato involontario protagonista per una ‘battuta’ tanto innocua, quanto… italiana.
Prima vi comunico che il genere di pittura chiamato pastello è eseguito di solito su carta: quelli denominati a cera sono composti da un legante a base cerosa che contribuisce a rendere l’opera quasi translucida con una gradevole… ‘profumazione’. La pasta ricavata ha tre diverse gradazioni: morbida, semidura e dura. Mi sembra superfluo precisare che oggi si trova in commercio una vasta gamma di tutti i prodotti necessari e pronti per l’uso.
Gianni una sera discutendo di pastello si lasciò sfuggire “ chiaramente l’etimologia ci porta ad una chiara origine italiana ‘pasta’ …”, ma qualcuno non fu in sintonia. Poi, documentatosi meglio, venne a sapere che Leonardo da Vinci a proposito del pastello e del modo di colorire a secco, precisa che apprese la tecnica a Milano nel 1499 dal francese Jean Perréal, pittore e architetto più noto come Jean de Paris.
Mi sono ripromesso di vedere in seguito con più calma, 55 minuti non sono sufficienti, i lavori per sentire dalla viva voce di Palumbo: descrizione, esposizione, narrazione, spiegazione e rappresentazione. L’artista molese è un uomo di profonda e vasta cultura, che continua ad arricchire cimentandosi nella pubblicazione di libri (con Antonio Abatangelo ha pubblicato il “Vocabolario Etimologico Illustrato del Dialetto Molese”, perfezionato anni dopo con le “Postille”, senza dire che negli ultimi anni del secolo scorso si era cimentato con “Canti Popolari Molesi”) e nei disegni che realizza giornalmente, seguendo il suo istinto fanciullino che lo porta a meravigliarsi di ogni opera del Creato che lo circonda.
Spero in una mia prossima visita a Mola di poter ammirare e apprezzare con meraviglia uno Studio dal vero del Teatro dedicato a Niccolò Van Westerhout, di cui Antonio Palumbo dimostra di aver studiato quasi tutto e sapere tantissime cose che vanno tramandate perché la storia che ‘scriviamo’ tutti i giorni si nutre di fatti, tradizioni e … storia vissuta in precedenza.