"Donne, parola e identità: tra memoria e futuro": intervista a Santa Fizzarotti Selvaggi
BARI - In questa profonda e articolata intervista, la psicoterapeuta barese Santa Fizzarotti Selvaggi offre una lucida analisi del ruolo della donna nella complessa "società liquida" contemporanea, riflettendo sulle radici storiche della marginalizzazione femminile nelle arti e nella cultura. Con la sua sensibilità di terapeuta e osservatrice attenta della società, la dottoressa Fizzarotti Selvaggi affronta temi delicati come il femminicidio, esplorandone le radici profonde, e ripercorre figure femminili pugliesi, anche meno note, che hanno lasciato un segno significativo nella storia regionale, invitando a una rilettura della memoria collettiva.
Questa è una domanda che sollecita molte riflessioni. Il termine "società liquida", come si sa, lo si deve al sociologo Zygmunt Bauman per sottolineare con un’immagine visiva (liquida) la condizione di incertezza in cui ci ritroviamo a vivere. Una sorta di società borderline in cui le relazioni, comprese quelle familiari, si disgregano, si ricompongono per poi disgregarsi nuovamente, spesso per una questione di interessi, essendo questo nostro tempo dominato dal dio Quattrino. La violenza, a noi connaturata, esplode, emerge il preumano senza più freni inibitori, la tecnologia ci sottrae il tempo, la persistenza dell’immagine genera l’illusione dell’eternità…
Tutto scorre veloce: le madri di famiglia al controllo del ragù domenicale sono, direi, un pallido ricordo, una rarità. Estia, la dea greca (Vesta per i latini) custode del focolare, ha cambiato dimora, sembra essersi trasferita sui teatri di guerra per raggiungere i fuochi nemici, emula maschili ruoli estremi, i racconti e le tradizioni da tramandare alle nuove generazioni sono affidate a YouTube, al prof. Google. Viene meno la relazione fondante l’identità dei bambini: il rapporto con la madre, l’area di gioco condivisa, il parlar materno che insegna al bambino a parlare e dunque a pensare.
L’incontro, il confronto, il dialogo si sono trasformati in soliloquio con sé stessi, per la precisione con l’immagine ideale e difensiva che si ha di sé stessi e che con la realtà non ha molto a che vedere. Il ruolo della donna si smarrisce tra la foresta di stereotipi.
Guardando al passato, cosa ritiene sia accaduto nel corso del tempo per portare la donna, in molti contesti, a condizioni di difficoltà o marginalità?
Un discorso antropologico complesso è questo. In principio, nel mito, c’erano le Dee Madri preistoriche associate alla fertilità, al ciclo della vita. Non si dimentichino le Amazzoni, donne guerriere: i racconti ci svelano sempre una parte di verità. In alcune società il matriarcato non è mai stato posto in discussione. Con il passare del tempo gli uomini, dovendo andare a caccia per sostenere la famiglia, si sono costruiti le leggi a propria misura: le donne nelle caverne e poi nelle tende per educare la prole. La gravidanza risultava misteriosa e dunque da controllare per molti motivi, comprese le eredità. Le donne però hanno educato e posto le norme nelle mura domestiche pur spesso ridotte al silenzio, all’assenza di parola, introiettando i modelli maschili che inconsciamente venivano trasmessi alle nuove generazioni. L’invidia maschile nei confronti delle donne, capaci di generare, è sempre stata intensa al punto poi da marginalizzarle soprattutto nella polis. La storia delle arti, per esempio, ha riconosciuto alla donna la capacità di scrivere poesie: vale per tutte la meravigliosa Saffo, alla quale si sono ispirati molti poeti lirici. In realtà la poesia è l’espressione della più profonda malinconia: non a caso è stata la stessa Saffo a scrivere “io dico che qualcuno si ricorderà di noi”.
La pittura, la musica, l’architettura, apparentemente più “immortali” della poesia ed anche più legate alle vicende economiche, sono state un “territorio” maschile. Ancor oggi i mercanti, i galleristi e i critici preferiscono, non a caso, gli artisti, e non le artiste, quando si tratta di rinnovare il mercato dell’arte.
Artemisia Gentileschi, la figlia del pittore caravaggesco Orazio Lomi, detto Gentileschi, è ricordata per la sua grande maestria: ma spesso se ne parla a causa di uno dei più famosi processi per stupro della storia e dunque per una questione intima e personale.
E così per tutte le altre, con ragioni differenti, a cominciare da Rosalba Carriera, del XVII secolo, per finire all’affascinante Berthe Morisot, la grande pittrice del XIX secolo che irritò i critici del tempo per la sua partecipazione alla mostra degli Impressionisti organizzata presso lo studio di Nadar. Così come non si può non ricordare, tra tutte, Marie Clémentine Valadon, nota come Suzanne Valadon, la cui bravura e intelligenza furono molto apprezzate da Degas. Suzanne, dal temperamento forte ed energico, fu la modella di molti famosi artisti, ma soprattutto fu una grande disegnatrice, raffinata interprete delle linee strutturali del post-impressionismo. La si ricorda spesso soltanto come la madre del celebre Utrillo. Ma interessante è quanto la stessa Valadon ebbe a confidare ad un suo amico durante la mostra di alcune note pittrici: “Anche le donne di Francia possono dipingere, non è vero? Ma sai, io penso che forse il Signore ha fatto di me la più grande pittrice francese”.
Nella storia antica, ci sono figure femminili straordinarie che secondo lei rappresentano ancora oggi un modello di forza e ispirazione?
Non si dimentichino le donne delle Sacre Scritture: in primis Maria, Vergine e Madre che con il suo “sì” ha cambiato la storia delle donne e l’ottica del mondo. Come non citare, tra tante donne straordinarie del passato, l’opera di due donne lungo le rive del Mediterraneo: Nefertari, moglie di Ramses II il Grande e Puduepa, regina degli Ittiti, moglie del re Hattusili III. Entrambe rappresentano un esempio luminoso: Puduepa fu un’abile diplomatica tanto da riuscire a far cessare la sanguinosa guerra tra Ittiti ed Egizi. Puduepa firmò con il proprio sigillo, di fianco a quello del marito e del Faraone, lo storico trattato di pace di Kadesh tra Ittiti ed Egizi, di cui una copia è esposta all'ingresso dell’ONU. Emblematico l’episodio tramandato da Tito Livio, in “Ab Urbe Condita” Liber XXII – 52, circa Matrona Paulina Busa di Canosa di Puglia, ricordata anche dal Boccaccio nel libro “De mulieribus claris”. Paulina Busa, durante la sanguinosa battaglia di Canne nel 216 a.C. che vide l’esercito romano sconfitto da Annibale con oltre 55.000 soldati romani uccisi, curò tutti i feriti andando loro in soccorso e fornendo il necessario. Donne tutte al servizio della pace come Hélène Pavlowna, granduchessa di Russia che finanziò l'organizzazione assistenziale in Crimea (1854-1856) o Florence Nightingale (Firenze 1820 – Londra 1910), ricordata come la Signora della Lampada perché sui campi di battaglia cercava i feriti per curarli. È considerata la fondatrice dell'assistenza infermieristica. E così tanti esempi di donne che rappresentano davvero le fondamenta della società: donne poco note, madri di famiglia, mogli e spose, compagne e sorelle.
Perché, secondo lei, nelle arti e nella cultura la presenza della donna è stata spesso marginalizzata o sottovalutata?
Credo di aver già espresso il mio pensiero, che ribadisco e confermo. Arte, dunque, come possibilità di generare una parte di sé nella quale narcisisticamente compiacersi. Le artiste del nostro tempo, pertanto, continuano a confrontarsi con il mondo androcentrico dell’arte, convinte però che questo, pur essendo declinato al maschile, rimane pur sempre per principio femminile. Con la stessa severità e forza di Penelope, senza vendetta e senza rancore. Ma forse in un permanente stato di “attesa”.
L’arte è un enigma. L’universo femminile è, dunque, il luogo in cui tale enigma incontra veramente le sue origini.
Sovviene nuovamente la vicenda di Artemisia Gentileschi, la pittrice seicentesca della quale sono note le sofferenze, ma anche, per così dire, la successiva e finale rivincita. La bellissima maestra Artemisia, figlia del pittore caravaggesco Orazio Gentileschi, che il maschilismo di un Giambattista Passeri nella vita del Tassi (lo stupratore!) descrive come “non onorata”, finì invece per trionfare, con la sua arte, diventando “degna d’ogni stima”, proprio perché essa è tra le eroine della “parola pittorica” moderna.
Artemisia, dalla “bella bocca piena, dagli angoli spioventi, lo sguardo altero e solitario”, apprese da suo padre, padrone e maestro, i segreti dell’arte pittorica; ma per questo suo “esercito di pittura”, scrive Eva Menzio, fu sempre guardata stranamente. Si trattava di un’attività inconsueta per una donna che “osava svolgere un mestiere riservato agli uomini”. La sua vita di donna e d’artista, infatti, sempre al centro di trame ed inganni, non fu mai “rispettata” abbastanza. Essa, invece, tra poche altre (Lavinia Fontana, Caterina Ginnasi), pur in un’epoca che aveva sempre visto i Caravaggio, i Reni, i Lanfranco, i Carracci “si rese — dice ancora — gloriosa nella pittura”. Inaugurò, se così si vuole dire, quell’altra dimensione, la dimensione della “Luna”, che è poi quella che adesso, dopo oltre quattro secoli, ci pare finalmente di cominciare a ritrovare e a rivalutare. Autrice di sé stessa, Artemisia rappresentò metaforicamente il suo dramma più profondo nel quadro di “Giuditta ed Oloferne”, un’opera che attrae sia per la bellezza formale e gli intensi valori cromatici (il bianco candido, il rosso vermiglio e il giallo oro), che per l’abilità con la quale sono dipinte le stoffe; un’opera che soprattutto incuriosisce, turba e commuove per una inaudita violenza che pervade la scena, “tutta impregnata dal sangue che sgorga copioso dal capo reciso” di Oloferne. Per questo famosissimo quadro Roland Barthes ebbe a dire, a suo tempo, che Oloferne, per maestra Artemisia, non era mai stato soltanto un personaggio, ma un individuo, e che l’intera opera partecipava di una “energia letteraria”. Ma forse c’è qualcosa in più della semplice letteratura. C’è, infatti, la precostituzione del recupero di quel “corpo in figure”, come dice Adriana Cavarero, con cui viene riscattata l’essenza del femminile, che invece l’Occidente aveva da sempre disprezzato, condannato, offeso, e costretto in ogni caso a rimanere fuori dalla “polis”.
Qual è la sua opinione sul movimento femminista, sia nella sua forma storica che nelle evoluzioni più recenti?
Invero credo che sia stato un movimento necessario che però è stato poi cooptato dal consumismo, come accaduto per il ben noto ‘68, cui non nego di aver partecipato, finito nei rivoli di magliette e quant’altro. Personalmente penso che con il passare del tempo si siano costruiti degli stereotipi ancor più pericolosi per quanto riguarda il ruolo femminile. Detesto leggere “quote rosa” come se le donne appartenessero ad una categoria di emarginate, quando invece sono davvero le fondamenta della società, nonostante la storia sia androcentrica, una storia che va reinterpretata. Il femminismo contemporaneo, ha scritto Giovanni Paolo II, trova il suo motivo fondamentale nella reazione all’assenza “di vero rispetto per la donna”, — e ciò soprattutto — perché “nella nostra civiltà la donna è divenuta prima di tutto oggetto di godimento”. Magari, anche, sempre e soltanto oggetto di desiderio e non già in egual misura soggetto desiderante. Di qui, infine, l’inevitabile scadere dell’ideale femminile verso una manierata e narcisistica “immagine”, fondata sulla vanità e galleggiante sulla vacuità dell’apparire.
Eppure, tante pagine di storia sono, non a caso, intrise del dolore femminile per una situazione di gran lunga meno “facile”, le cui ragioni Simone de Beauvoir ha ravvisato, con l’intuizione propria degli scrittori e al di là delle stesse interpretazioni psicoanalitiche, sia nello sviluppo economico delle società contemporanee, sia nella inconsapevole e forzata introiezione di un destino di donna, fatto di accettazione e di silenzio. Di modo che si tratta di riteorizzare — possibilmente in maniera serena e razionale — la cosiddetta questione femminile alla luce dei nuovi sviluppi storici per contribuire alla crescita di una società che, nel suo composito insieme, possa definirsi civile e non soltanto “progredita”, e dove, come si usava dire nel 1968, la donna, al pari di chiunque, possa prendere la “parola”.
La “parola”. Già Saffo, rivendicando il suo diritto alla poesia, rivendicava, appunto, il diritto alla parola; ossia alla possibilità e capacità evidentemente “creative” di dire il proprio essere e la propria voglia di essere. Ma di “essere”, altresì, nella luce dell’espressione e della comunicazione del messaggio che la “Memoria” conserva ed amplifica, e non sicuramente nell’ombra o nella passiva discrezione del silenzio. E dunque dell’oblio. Che se poi, com’è accaduto per secoli, pur nell’avvicendarsi delle epoche, che la donna, per complesse motivazioni di difficile analisi in questa sede, abbia dolorosamente continuato ad identificarsi con la “Natura”, una Natura sconosciuta e barbara da usare e dominare, una Natura, in definitiva, come Anti-cultura, ecco allora connotarsi il vero progetto o fine o ideale di tale “riconquista di parola”!
Non solamente, per altro, della “parola” ristrettamente intesa, ma della “parola” come appartenente alla parte femminile della significazione ed illustrazione del mondo.
La parola, dunque, anche come figura e rappresentazione.
Ci sono situazioni ancor oggi di grave sudditanza, ma non è un problema solo femminile di cosiddetta «emancipazione»: è anche un problema maschile. Gli uomini non si «emancipano»: sono preda di stereotipi dovuti all'educazione ricevuta dalle madri che hanno trasmesso inconsapevolmente modelli maschilisti, sono soggiogati dai messaggi mass-mediali laddove le donne si offrono al loro sguardo come oggetto di conquista e dove c'è conquista c'è violenza. Sono obnubilati da luoghi comuni e pregiudizi.
Il fenomeno drammatico dei femminicidi è sempre più presente nelle cronache. Da terapeuta e osservatrice della società, quali crede siano le radici profonde di questa violenza contro le donne?
Per quanto riguarda i femminicidi, come per gli omicidi o infanticidi, trattasi di assassini. Si uccide per tanti motivi nonostante quel perentorio “NON UCCIDERE” del V comandamento. Non si dimentichi che in un nostro remoto cassetto giace Caino, il predatore, il preumano. Gli uomini, almeno alcuni, sono quasi intimoriti dalle donne che vorrebbero possedere come forse avrebbero voluto possedere in tempi remoti la propria madre. Una sorta di spostamento. La morte diviene una forma di vendetta, l’assassinio un crimine “necessario” nel tentativo di diventare liberi dentro di sé, di sedare l’urlo interiore di quelle forze disgregatrici che devastano la nostra vita: si tratta di disturbi molto gravi. Per non dire poi dei messaggi mediatici che inducono a un consumo eccessivo di sesso e violenza per meglio poi dominare le masse. Se si passa all’atto non c’è più posto per il pensiero.
La tragedia di Medea di Euripide e la fiaba di Barbablù sono la rappresentazione di tutto ciò che è chiuso nel cassetto segreto e che se non riconosciuto può trasformarsi in vere e proprie psicosi (Cfr. J. Hillman) “conglomerati di energia di qualche tipo (emotiva, di certo, ma anche psichica e talvolta fisica) che vogliono esplodere, uscire, venire allo scoperto, vivere”.
Medea a Corinto. Medea: “barbara” e sapiente. Una maga che conosceva le arti della medicina: una donna straordinaria che pur di rimanere per sempre legata a Giasone purtroppo negò la continuità sacrificando i figli. Un atto orrendo, che nasconde l’atroce sofferenza di Medea e che oggi alcune donne disperatamente compiono.
Il problema in parte risiede nei modelli femminili interiorizzati dalla donna stessa per cui tra noi donne non siamo solidali. Permangono sempre i modelli androcentrici e forse il desiderio di voler essere "uniche" per il Padre più o meno Padrone che sia. Di qui una serie di complicanze davvero destruenti il tessuto sociale.
Forse bisogna cominciare ad evitare dannosi luoghi comuni e guardare da vicino ben altro: ricentralizzare la famiglia, gli affetti, l’autorevolezza, l’educazione, l’amore.
In un articolo di Sarandis Thanopulos, Presidente SPI “La violenza, la sanzione e la cura” si legge: “Nel pensare la violenza contro la donna è difficile accettare l’idea che dietro l’azione distruttiva non ci sia una chiara, conoscibile motivazione: l’eccesso di passione, l’arbitrio patriarcale, la “malattia mentale”. Il coinvolgimento inconsapevole delle vittime nella catastrofe, se presente, è, invece, comprensibile, seppure complesso. Spicca tra tutte le motivazioni contraddittorie (mescolanti l’amore e l’odio) che le mettono nelle mani dell’assassino (impedendo loro di sottrarsi in tempo o di evitare l’“ultimo” appuntamento) la fiducia che la relazione d’amore possa essere bonificata anche quando è tossica”.
Ci sono esempi di donne pugliesi, anche meno conosciute, che ritiene abbiano lasciato un segno importante nella nostra regione?Si, tra le tante come non ricordare l’azione umanitaria della contessa Adelina Mazzitelli a favore di enti umanitari in un periodo difficile della storia italiana e della nostra città spesso visitata da Nicola I del Montenegro e da sua figlia Elena , che andò sposa a Vittorio Emanuele III re d’Italia. E fu nel 1905, anno di edificazione della palazzina liberty in piazza Umberto, conosciuta come sede storica de “ La Goccia di latte “ che, in occasione della inaugurazione della statua equestre a Umberto 1, scolpita da F. Cifariello, il re di Italia e la sua consorte elargirono 25.mila lire per l’assistenza ai meno abbienti della città. Un gesto che segnò la coscienza di quel tempo.
Ma fu il 21 gennaio 1921 che l’edificio fu assegnato all’ ” Ente morale Goccia di latte“ , che molti ravvisano come prima forma di assistenza sociale barese.
Invero, fu una straordinaria donna ad aver fondato il 28 aprile del 1919 l’Associazione, con decreto 8916, Associazione che finanziava personalmente. Per onor di storia si tratta di Ave Fornari Chierici. Per i primi due anni le Volontarie coinvolte da Ave Fornari svolgevano la loro opera assistenziale presso le abitazioni. Si occupavano delle gestanti e dei loro bambini insieme a medici, pediatri, balie che gratuitamente fornivano il latte materno. Di qui il nome “Goccia di latte”. In seguito all’intervento del prefetto Ferrara, che si prodigò per restaurare l’edificio tramite anche una raccolta fondi, l’inaugurazione ufficiale de “La Goccia di latte“ avvenne il 1 febbraio del 1922, alla presenza di numerose autorità.
Ave Fornari Chierici era instancabile, tutta dedita nell’organizzazione della rete assistenziale. L’azione de “ La Goccia di latte, grazie alla sua fondatrice, ricordata da Frate Menotti in una delle sue illustrazioni con un bimbo tra le braccia mentre il marito, medico anche egli la guardava, estese la sua opera occupandosi per molti anni di asili nido, mense, colonie con l’unico obiettivo di sostenere quei bimbi che per vari motivi non avevano le possibilità di coloro che erano più fortunati. Ave Fornari Chierici coinvolse molti medici, tra i quali la dr. Anemone, e la direzione fu affidata al noto pediatra prof. De Vicaris. In tale complessa articolazione certo non mancò l’attenzione al gioco creativo perché la fondatrice conosceva bene il valore del gioco anche perché le idee della Montessori già cominciavano a cambiare le metodologie di apprendimento scolastico.
L’azione volontaristica di Ave Fornari fu una scelta libera e il suo progetto solidaristico, capace di entusiasmare tanti operatori facilitò un cambiamento culturale scaturito da un profondo senso di responsabilità nel rispetto della storia umana e delle persone come tali.
Ma l’amarezza mi coglie dinanzi all’ oblio di illustri personaggi che hanno fatto della loro vita una autentica missione. La nostra città a volte ama non ricordare esempi luminosi che, invece, garantiscono la continuità di azioni che fanno grande la nostra storia.