Quell’ultimo baluardo di dignità per l’Europa chiamato Francia
ROBERTO BERLOCO. Immediato. Lampante. Impossibile da ignorare e da obliare. Tra i diversi effetti indiretti della vicenda ucraina, c’è stato di mettere a nudo fragilità e contraddizioni di quella che, col nome di Europa, viene designata impropriamente l’Unione europea. Mai in passato, se non come in questi tre anni di guerra alle spalle e neppure sotto pandemia, sono emersi atteggiamenti, o, peggio ancora, tradimenti di atteggiamenti, che hanno bene rappresentato l’assenza di una reale spina dorsale, o, se si vuole, di un’anima comune forte nell’attività decisionale di Bruxelles.
Lo spettacolo di organi politici e cime istituzionali di Palazzo Berlaymont sostanzialmente flettersi, con periodicità e una invidiabile prontezza di riflessi, ad indicazioni, istruzioni e sollecitazioni del Governo degli Stati Uniti d’America sui drammi di Kiyv, ha rappresentato una pietra miliare di umiliazione per tutti quegli animi dotati di orgoglio cosciente di Europei, prim’ancora che di patrioti di singoli Paesi europei.
Uno stato di cose paradossalmente peggiorato anche con il cambio di guardia alla guida della superpotenza d’Oltreoceano. La spinta del disinteresse di fatto alla causa del popolo di Zelensky, inaugurata dall’ingresso di Donald Trump sulla scena prima occupata da Joe Biden, ha portato le autorità del Vecchio Continente ad irrigidire la direzione voluta da quest’ultimo, invece che a considerare fattibile un nuovo percorso di soluzioni, finalmente reso possibile dall’improvvisa, provvidenziale liberazione dalle briglie del molosso a stelle e strisce.
In tutto ciò e tutt’ora, la Francia ha prodotto una realistica posizione di equilibrio tra le comuni ambizioni sul campo, dedicate a nutrire finanziariamente e militarmente la resistenza ucraina, e quelle che comuni non lo erano e ancora non lo sono, come un rapido intervento risolutore ad iniziativa unilaterale, mirato esclusivamente a respingere l’aggressore russo entro i suoi confini naturali.
Malgrado l’idea di una guida saggia, coraggiosa e razionale da parte di Parigi nel palcoscenico di una contesa che offre sempre di più la sensazione di esser solamente la prima fase di un nuovo conflitto mondiale, il terzo in didascalia, ogni Paese alleato dell’Unione ha però preferito promuovere il proprio gioco all’interno di quello dell’asse anglo-americano, vera regia politica propulsiva della NATO e delle sue proiezioni inutilmente azzardate verso Oriente.
D’altra parte, viene anche naturale domandarsi che mai ne sarebbe stato dell’Europa tutta e di quel che oggi viene appellato Occidente, senza quell’enorme atto di coraggio civile che fu la Rivoluzione francese. Ancora oggi, ogni cittadino del mondo è debitore morale del sacrificio di vita e di sangue che il popolo transalpino dedicò agli ideali di Libertà, Uguaglianza e Fraternità, gli stessi oggidì vivi e in radice grazie ad una Repubblica che, giunta alla sua quinta edizione, mantiene inalterati tutti i buoni istinti di partenza, facendone tesoro ad ogni più rilevante passo istituzionale.
Anche se, pubblicamente e per ragioni intuibili, si fa immane fatica a riconoscerlo, la Francia è poi l’unico Paese europeo che riesce a confrontarsi in situazione di assoluta parità con gli USA, vale a dire quel cosiddetto Alleato maggiore, il quale, nel territorio del Vecchio Continente, possa permettersi d’impartire ordini ai Governi nazionali dei Paesi NATO in tema di sicurezza militare.
Non è un caso che il Generale Charles De Gaulle, pur aderendo formalmente all’Alleanza atlantica, non abbia mai consentito alle truppe statunitensi di creare loro basi o acquartieramenti di nazionalità promiscua entro i confini delle giurisdizioni francesi, comprese, ovviamente, quelle d’Oltremare. Una linea, questa, che sarà tenuta ferma pure dai suoi successori, foss’anche di altra estrazione ideologica, sino all’interruzione incarnata da Sarkozy.
Una prova dell’esemplare autonomia politica dell’Esagono, si è avuta di recente, emergendo in modo del tutto casuale, assolutamente non premeditato, ma davvero plateale, durante una delle visite dell’attuale Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron presso Donald Trump, ancora fresco ma di nuovo inquilino della Casa Bianca. Il fatto, accaduto il 24 del Febbraio scorso, si è consumato in un angolo dello Studio Ovale della residenza presidenziale statunitense, e ha trovato una immediata amplificazione mediatica per ragioni che andavano ben oltre il doveroso atto di cortesia della visita ad un Presidente neoeletto.
Ad un certo punto del parlare a ruota libera del padrone di casa, dopo che questi dichiara che l’”Europa presta soldi all’Ucraina e si riprendono i loro soldi indietro”, Macron interviene posando una mano sul suo braccio. Lo farà dolcemente, quasi fraternamente, ma pure con sicura autorevolezza, dando fuoco così a quella che sarà una correzione destinata a passare alla storia della nuova annata, ma pure dell’intera traversia slava.
“Ad essere sinceri” - irrompe cercando gli occhi del collega americano e senza timore di esser interrotto - “abbiamo pagato il 60% dello sforzo totale e si trattava di prestiti, garanzie, sovvenzioni. Abbiamo fornito denaro reale, per essere chiari”.
La spontanea, gentile ma salda reazione di Emmanuel Macron, ordinaria e perfino scontata dal punto di vista francese, ha invece stupito le altre parti europee, in particolare quella italiana, tutte non abituate a guardar rettificare il gigante statunitense con tanto sereno inclito di chiarezza, insomma proprio come farebbero due protagonisti della Storia occidentale in reale parità di amicizia.
Dall’Italia, non avvezzi a vedere i propri Governanti nella norma di parlare all’altezza degli occhi con gli Americani e con quanta cortese eleganza, unanimi e a profluvio i commenti della gente comune a proclamare Macron un “vero statista”, invece che a vederci il giusto, vale a dire un preparato Capo di Stato che è anche a Capo dell’Orgoglio di uno Stato che, libero, lo è veramente.
E pure i media nazionali non si sono sottratti all’impulso della meraviglia. L’Espresso, nel suo sito in linea, occupandosi della percezione dell’atteggiamento di Macron nei suoi analoghi di rango, dirà di lui che “non ha mostrato sudditanza verso il presidente statunitense”.
Ma a colpire di Macron, è stata anche quella particolare determinazione a trovare una soluzione al conflitto in territorio ucraino, perfino unilateralmente, come è emerso più di una volta durante l’anno andato, suscitando stupore negli altri Governanti europei, e, soprattutto, in Russia, alla quale, almeno per un momento, deve essere parso di materializzarsi il terrore napoleonico. Se si volesse cercare una metafora, l’atteggiamento presidenziale francese è emerso alla maniera di un musicista talentuoso che, di tanto in tanto, si distacchi da un’orchestra stonante, per prendere per sè cinque minuti di scena da dedicare finalmente a buona musica.
D’altra parte, la prospettiva di un’iniziativa militare a firma unica della Francia per la risoluzione dello scontro russo-ucraino e tesa unicamente alla liberazione delle aree occupate, acquista un senso ancora più concreto e credibile se associata alle attuali potenze dell’Armée, vale a dire uno degli eserciti d’offesa più professionali al mondo, uno dei pochi, in Europa, spalleggiati da un’ampia tradizione di gloria e di sudate vittorie sui campi di battaglia.
Un passo inoltre reso non così difficile, considerando la concentrazione di reparti speciali francesi già sul limitare del confine romeno settentrionale, fin dai primi di Marzo del 2022, sia pure sotto i colori della NATO Response Force (NRF).
Nessun arretramento, ma fronte alta e piena fermezza pure alla notizia di dazi dal Distretto di Columbia. Non offerte di tributi di sottomissione, nessun ginocchio già piegato, nessuna tremarella alle gambe.
Al principio di Aprile, Macron reagisce prontamente, annunziando la sospensione di ogni investimento delle imprese francesi negli Stati Uniti.
"Quale sarebbe il messaggio che i principali attori europei darebbero” - dichiarerà - “se investissero milioni di euro nell'economia americana in questo momento in cui ci stanno colpendo? Non siamo ingenui, quindi ci proteggeremo”.
Ma, alle minacce d’incremento delle misure protezionistiche da parte americana con la mira all’Europa, pronta è stata anche la risposta di Francois Hollande, già Presidente della Repubblica francese, il quale ha invocato energicamente una reazione che avesse almeno la medesima durezza adoperata da Washington.
Questo mentre, all’opposto, in Italia, tutt’ora si persevera in un atteggiamento di molle prudenza da parte di Palazzo Chigi, e tanto malgrado le più energiche proteste delle aziende esportatrici di diversi settori di tutto il Bel Paese, e la previsione, per niente claudicante, di posti di lavoro in dirittura di perdita.
Il fatto è che la dignità tiene i propri banchi di prova, e quella di nazione, se non accompagnata da vero orgoglio, sana visione e giusto coraggio, somiglia molto ad una pianta che la debolezza rende brutta e vecchia a vedersi: con il tempo, nessuno più vi s’avvicina, perde di senso e il rischio è che, al primo forte vento, venga spazzata via.
Vero è pure che, nel quadro dell’idea compulsiva di Europa che promana dalle versioni dei suoi enti e dalle interpretazioni che ne seguono tra il giudizio comune, di spazio per una riflessione storica approfondita circa le essenze nazionali coinvolte e il loro senso autentico, in previsione di una loro più seria armonia, ce n’è veramente poco.
Di contro, se è vero che l’esempio degli atti, già da sé, mostri e dimostri ciò che più conta nella scala dei valori, quello della Francia, a questo fatale punto dell’avventura europea, e, a maggior ragione, alla luce degli eventi più recenti, ha molto da insegnare a tutti i propri soci continentali, alla maniera di un punto fermo, un ultimo baluardo a fronte d’ogni sorta di confusione, incertezza o tentazione di cedimento che possano essere ingenerati dalle tipiche turbolenze della storia.