Incontro storico ad Anchorage: riflessioni tra potere, guerra e speranza umana


SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI
- Leggo articoli di ordine politico e sociale scritti da giornalisti di chiara fama e docenti universitari, esperti e appassionati di cronaca, ma in mente mi rimane solo l’immagine dell’incontro storico in Alaska ad Anchorage. Ho seguito da Creta ogni passaggio di questi avvenimenti che ovviamente si preparavano da tempo. Il tappeto rosso, i dignitari, la stretta di mano, l’abbraccio tra i due presidenti delle due potenze mondiali, Russia e Stati Uniti, come se fossero stati amici da sempre. Due identità storiche di cui una evoca la grande Russia con le sue tradizioni, vittorie, sconfitte, letteratura, musica e dall’altra gli Stati Uniti ancor giovani e formati da un insieme di popoli che un tempo emigrarono alla ricerca di una nuova vita, nuove terre abitate da indigeni che furono annientati in tutto. L’Occidente, a cui si devono tante cose buone, il logos, la cultura, le invenzioni, non è stato così civile come vuole apparire con i popoli altri, ritenendo che il suo sguardo fosse l’unico al mondo. Si ricordi la vicenda degli Incas e il trauma irreversibile procurato da Cortés e Valverde. In un’opera di Luis Montero del 1861 dal titolo “I funerali di Atahualpa”, e di cui più volte ho narrato, ben si evince il tragico di un popolo: un bimbo che guarda da nessuna parte senza futuro. Quando si perdono i pezzi della propria e altrui storia si distrugge il mosaico cangiante del mondo e non vi sono vincitori e vinti ma solo vinti. La conoscenza viene così resa orfana, povera…

Siamo ancora tribali, avidi di tutto, di terre, di ricchezze, di ogni cosa possa esserci utile e anche non utile. Si sono aperte le voragini della bramosia. Non usiamo più la clava (cfr. S. Freud) bensì strumenti bellici potenti capaci di far esplodere nostra Madre Terra. Ma dinanzi all’economia, oggi e come sempre, non conta la vita delle persone: noi dinanzi al piccolo schermo assistiamo agli eccidi con una sorta di malcelata indifferenza. Sangue innocente sparso dovunque nelle strade del mondo. Case sventrate dalle bombe, giovani morti in combattimento, vedove alla ricerca di cibo insufficiente, miseria e dolore, bimbi traumatizzati.

E il 15 agosto del 2025 due identità storiche con caratteristiche assolutamente differenti si sono incontrate: violenza o dialogo? La parola è capace di tutto al posto dell’atto, ma in un mondo ormai afasico e balbettante cosa può produrre? Un incontro quello di agosto anche difensivo nei confronti dell’area orientale.

Io credo che prima di affrontare un discorso di così grande complessità bisogna ripercorrere sia le vicende storiche in quanto tali sia interrogarci sulla natura umana.

L’incontro ovviamente era stabilito da tempo, studiato nei minimi particolari: fortemente mediatico per illudere che si possono percorrere i sentieri di speranza ma che, dal mio punto di vista, di speranza in un mondo migliore non aveva nulla. Un bel nulla, ma semplicemente un sancire degli accordi già presi e studiati al tavolo delle trattative. A mio parere le prove generali di una guerra a macchia di leopardo, ma posso sbagliare, sono state effettuate utilizzando la pandemia del Covid-19.

Qui non si tratta di affermare che si sta scivolando verso la barbarie o improvvisarsi politologi senza aver minimamente sfiorato la radice della natura umana. Il preumano è in noi pronto ad affiorare quando si facilitano le condizioni. Nessuno di noi è escluso da questa dinamica.

Tutta questa congerie di affermazioni soloniche mi ha fatto venire in mente un episodio di tanti anni fa di cui non ho mai scritto. Dovrò usare prudenza perché i personaggi sarebbero riconoscibilissimi. Correva l’anno 1987, insegnavo storia da anni, ma non ho mai avuto la sfrontatezza di definirmi storico, mentre mi formavo alla psicoanalisi. Ero in quel periodo un critico militante (lo sono ancora ma diversamente). Per tal motivo mi fu chiesto di teorizzare un movimento artistico. Il giorno dell’inaugurazione uno dei pittori mi chiese di seguire un’artista orientale di radice israeliana, figlia di un’autorità in quel periodo. Cominciai a seguire il lavoro e, dopo tempo, mi recai a casa sua in una parte del mondo dove aveva lo studio per vedere i risultati. Era lo shabbat: le donne non facevano nulla ma era aiutata da un suo amico. Un po’ timidamente chiesi di vedere un libro di fotografie e in evidenza, con mio stupore, vidi la foto del capo della OLP e un parente della giovane artista abbracciati dinanzi a una torta. Una bambina era stata da poco trucidata. Chiesi spiegazioni. Mi fu risposto: “Ma perché tu pensi che non siamo amici? Noi le guerre le facciamo fare agli altri.”

Da quel momento rividi tutta l’ottica con la quale avevo insegnato storia e rilessi la lettera di Einstein a Freud circa le ragioni delle guerre. Ragioni meramente economiche e noi tutti carne da macello. Dal web: “La firma degli accordi di Oslo tra Israele e palestinesi valse il Nobel a Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, leader delle due parti. Ma non chiuse il conflitto.” Sono stata in Israele e ho visto una convivenza pacifica che viene interrotta nel momento in cui le grandi lobby radicalizzano i sentimenti. Ma questa è un’altra storia che risale ad Abramo e di cui ho già scritto in varie occasioni. Eppure proprio in quelle insanguinate terre c’è chi ha insegnato ad amare oltre ogni confine: l’Agnello sulla Croce che ebbe a dire: “Padre, perdona a loro che non sanno.” Ama il prossimo tuo come te stesso. Ama il tuo nemico. Le parole del Maestro risuonano in me sempre.

E giusto per concludere, non posso non ricordare ai tanti Soloni di turno che vi sono associazioni di volontariato che ancora credono nei valori umanitari ponendoli in essere come accade per i soci e le socie della Associazione Crocerossine d’Italia Onlus. Amare così facile non è, ma è l’unica nostra speranza e salvezza.