Le due lingue espressive del commediografo Domenico Triggiani


ARTURO GUASTELLA* - Ãˆ un mondo ben complesso quello di Domenico Triggiani, commediografo, tragediografo e raffinato intellettuale barese, la cui produzione teatrale e letteraria affonda le radici sia nella Koinè barese che nell’ “ethnos del popolo, delle famiglie, della stessa Bari. 

E non basta ancora. Rubando il termine a Senofonte (Elladiche), azzardo a dire che a Domenico Triggiani appartiene il concetto greco di sympoliteia, una sorta di doppia cittadinanza, per cui la sua “identità culturale” corre sui binari paralleli dell’appartenenza ad una comunità locale e ad un koinon cui è demandata la sua produzione letteraria in lingua. Una deliberata commistione, però, tra il dialetto colto della borghesia levantina e quello sibilante che sgorga naturale dalla chiostra dei denti del popolo dell’angiporto e quello dei balconi che, nel nostro Sud, in una sorta di architettura di continuità urbanistica, ci si parla e ci si racconta da una parte all’altra dei vicoli. 

E non basta ancora, perché Domenico Triggiani è molto altro e chi scrive, leggendolo, si è accorto, suo malgrado, di non avere gli strumenti linguistici e lo spessore critico per delinearne lo specialissimo modo di fare teatro e di indagare profondamente il pensiero che illumina la pagina scritta. 

E, con questo incipit, per davvero assai carente, ero giunto alla decisione di declinare l’invito a scriverne del mio amico Nicola, figlio straordinario di tale genitore. Il quale non avevo mai incontrato, ma che conoscevo dai racconti coinvolgenti di Nicola. E, tuttavia, prima di riporre la penna, son voluto riandare a spasso nel mondo e nei personaggi di Domenico Triggiani, lasciando da parte le decine, se non centinaia, di recensioni colte, che avrebbero certo ingrossato il magone della mia inadeguatezza. 

E, poi, d’incanto, una notte di questa fine estate ho per davvero incontrato questo raffinato aedo dell’idioma e delle nostre genti, nel luogo più appropriato, il teatro di Epidauro, in Grecia. Il teatro antico più bello del mondo, il cui architetto, Policleto il Giovane, progettò e realizzò nella prima metà del IV secolo a.C., e la cui incredibile acustica è tuttora studiata dagli architetti di tutto il mondo. L’ho riconosciuto subito, seduto e assorto a guardare e ad ammirare la perfezione di quel monumento, dove nei secoli a venire sarebbero passati e Sofocle ed Eschilo, e Aristofane e Menandro ed Euripide. E, però, quel signore distinto che, alla stregua di un autore classico, sedeva su un lastrone della proedria (le prime fila del teatro, riservate alle personalità illustri), mi ricordava, stranamente, non tanto un Kostantinos Kavafis, il grandissimo poeta alessandrino dei primi del secolo scorso, che aveva scritto le sue liriche immortali in una stanzetta del Ministero dei Lavori Pubblici egiziano, dove per trent’anni si recava ogni giorno e aveva maneggiato scartoffie e mappe edili, mentre il cuore e l’intelletto volavano altrove, sulla vetta del Parnaso, ad intessere dialoghi con le Muse, quanto il lusitano Fernando Pessoa. Anch’egli ristretto in un minuscolo ufficio commerciale, “dove – scriveva nel suo diario – non so più chi sono, che anima ho. Quando parlo con sincerità, non so con quale sincerità parlo”. E, ancora, “Sono variamente altro da un io che non so se esiste (o se è quegli altri). Sento fedi che non ho. Mi sento multiplo…, plurale come l’universo…, mi sento vivere vite altrui, in me, incompletamente, in una somma di non-io sintetizzati in un io posticcio”. 

Qualcuno, forse Hemingway, ha scritto che tradurre un poeta o uno scrittore possono farlo soltanto i poeti e gli scrittori, e allora perché non farsi raccontare da loro, da Pessoa e Kavafis, questa sympoliteia di Domenico Triggiani? Questo suo attraversare due lingue, cogliendone l’intimo, l’essenza e scoprendo, nelle sue opere, eteronomi che sono tutti proiezioni dell’autore. Del Domenico Triggiani eteronimo, insomma, che trasferisce nei personaggi delle sue opere sé stesso, registrandone l’esistenza a fianco della propria. Inoltre, a proposito di lingue e di idiomi, forse che qui, in Grecia, non vi è stato un autentico stravolgimento linguistico, quando il letterato Adamantios Korais, agli inizi dell’Ottocento, quasi in contemporanea con la lotta di liberazione greca dall’occupazione turca, pensò di dare al suo Paese una nuova lingua, il Katharevousa, derivandola dall’antica koinè di Omero, e cercando di sostituire il Dimotiki, la lingua popolare, il dialetto, insomma, nelle varie accezioni dei luoghi e della città greche, che fino ad allora era in uso. Soltanto nel 1976, il Dimotiki ebbe la meglio, perché, nei fatti, era la lingua della gente, l’unica che potesse per davvero raccontare sentimenti, odio, amore, dolore e speranza del popolo della porta accanto.  

E quando Pessoa confidava “tutto il teatro è il mio cortile/, la mia infanzia è in ogni luogo/ e la palla a battere musica,/ una musica triste e vaga/ che passeggia nel mio cortile”, la similitudine con il mondo di Domenico Triggiani a me appare più significante di tante recensioni, certo colte e pertinenti, ma che non lasciano intravvedere il periplo del commediografo barese, all’interno di un’anima, che, come il poeta lusitano,“sono la scena viva sulla quale passano svariati attori, che recitano svariati drammi”. 

Drammi, sì, certamente drammi, come il tormento del giudice Pietro Pandis, che unico tra i giudici togati e i popolari, nel pronunciare la sentenza sul presunto omicida di un ingegnere, malgrado le prove a suo carico, vuole ad ogni costo ritenerlo innocente, perché egli stesso portava il peso nell’anima di un passato sempre presente. L’imperdonabile omissione di una sua azione dinamitarda, che aveva avuto come conseguenza la fucilazione di innocenti da parte dei tedeschi (Il dramma di un Giudice). 

Inoltre, in quasi in tutte le commedie di Domenico Triggiani, affiora sempre un sorriso triste, come se l’autore volesse temperare la comicità di taluni personaggi con la penombra delle situazioni. Come in uno specchio, il passato sembra rimandare a Triggiani, l’immagine di un uomo che non fu mai giovane, che ha sacrificato l’età più bella alla cura dei figli e alle polverose scrivanie degli uffici e degli scaffali dei libri. L’ufficio, il caffè, le biblioteche, le dita segnate dall’inchiostro che tracciano, dipingono personaggi che abitano le piazze e i palazzi di pietra e un “ghetto brulicante e immenso, odoroso di spezie, ricco e miserabile”, ma che è la sua patria. E l’ufficio, gli uffici, dove il nostro commediografo trascorreva metà della sua vita? E le notti febbrili, a scrivere, a pensare, ad inventare e dare voce ai suoi eteronimi? 

Qui, nel teatro di Epidauro, a fianco del quale c’era (e c’è), il tempio di un Dio, quello della Medicina, Asclepios (Esculapio), e un fantastico ospedale, che i Greci raccontavano fosse stato lo stesso Nume a far edificare.  Qui, è possibile, per sortilegio, chiamare a raccolta e chiacchierare con scrittori e poeti che, come Domenico Triggiani, avevano trascorso metà e più della loro esistenza dietro scrivanie e farsi dire e narrare. 

Al nuovo Direttore, o capufficio, nel Papà, a tutti i costi di Triggiani, ecco lo sfogo di uno scrivano, Don Peppino, “vedete signor Direttore, con i tempi che corrono, gli impiegati, in genere, non sono altro che un… brulicame informe di minorati economici… privi di orizzonti… di luce e di speranza di divenire qualcosa… La classe degli impiegati, signor Direttore, è ridotta ad una… umanità rattrappita, ammucchiata e rinchiusa per tutta la vita dentro le prigioni dei mastodontici uffici… mercato e tratta di schiavi comprati ad un tanto al giorno da una civiltà moderna, che si illude e si vanta di aver abolito la schiavitù dei tempi antichi e che … []”

Ed ecco farsi avanti un altro grande scrittore, Franz Kafka, che lavorò per ventiquattro anni, prima nell’ufficio di Praga delle Assicurazioni Generali e, quindi, nell’Istituto degli Infortuni sul lavoro (la nostra INAIL). “Queste due professioni”   scriveva  non si possono mai conciliare, né ammettono una felicità comune. La più piccola felicità nell’una diventa una grande infelicità nell’altra. Le due professioni per il grande scrittore boemo erano le carte della scrittura notturna e le scartoffie dell’ufficio. “Quando una volta”  si sfoga – decisi di mettermi in congedo per due settimane, per cercare di finire alla luce del giorno il Processo, mi accorsi che la scrittura procedeva poco e male e mi colse il dubbio lancinante, di non essere degno di vivere senza l’ufficio…”. 

Negli occhi del commediografo barese, ma anche di Gongarov, Melville,  Bukowski, Hawthorne, Maupassant, Zola, Stendhal o Dostoevskij, tutti che avevano speso gran parte delle loro vite al chiuso di un ufficio e che erano tutti accorsi, qui ad Epidauro, un lampo di comprensione. “In queste buie stanze, dove passo/ giornate soffocanti, io brancolo/ in cerca di finestre,  Una se ne aprisse/ a mia consolazione . Ma non ci sono finestre/ o sarò io che non le so trovare/. Meglio così, forse. Può darsi/ che la luce mi porti altro tormento/. E poi chissà quante mai cose nuove ci rivelerebbero”, piangeva Kostantinos Kafavis (in Cinquantacinque Poesie, Einaudi, 1968, pag. 27). 

Mi verrebbe da chiedere a Triggiani e agli altri, della loro scrittura, dell’estro, delle fatiche, di questo aver saputo conciliare due mondi, così dissimili, e, in particolare al commediografo barese delle sue due lingue espressive. E del tempo, e di quando volle rubare ore alla notte, per scrivere, e di come la sua musa, la sua consorte, Rosa Lettini, aveva saputo assisterlo, aiutarlo e, assai spesso, consolarlo. “Il tempo, il tempo” interviene il coro, anzi lo Stasimo, siamo pur sempre in un teatro  qui in Grecia, abbiamo sempre associato la durata dei giorni, all’Aiòn, alla forza vitale. Aiòn, dunque, è il tempo vissuto, che coincide con la durata della vita di un uomo e si oppone a Chronòs”, il tempo, cioè, misurato a giorni, a stagioni, tempo come vitalità l’uno, e tempo secondo numero, l’altro”. E, poi, cantano i coreuti  c’è il Kairòs, l’istante, l’occasione irripetibile e inattesa, l’attimo fuggente, che per Esiodo, era l’ottimo, un punto nel flusso ininterrotto del tempo, che è l’incontro tra il tempo e l’azione dell’uomo”. 

Mentre mi accingo a chiedere al commediografo barese quando è stato l’esatto momento, il Kairòs, insomma, che ha dato una svolta alla sua routinaria vita di impiegato, per mostrargli che l’ufficio non era il tutto, e che il teatro, era anche vita, racconto di umanità, di speranze e di passioni, un brusìo insistente si leva dalle gradinate del teatro di Epidauro. Rumoreggiano in più file. Sono i segni grafici: virgola, punto, punto e virgola, accenti grave e circonflesso, parentesi tonda e quadra, dieresi, tilde e finanche rune e puntini di sospensione.Tutti a lamentarsi che le moderne prosa e poesia (profeti, il genovese Sanguineti e l’irlandese Joyce), tendono a fare a meno di loro. Portavoce, il possente Punto Esclamativo, cui Anton Cechov dedicò addirittura un racconto (1885), il quale guida la rivolta, scambiando forse, l’antico teatro greco, per il Palazzo d’Inverno, e quell’ottobre, con questo incipiente mese. Una rivolta letteraria, dunque, ma in difesa degli idiomi dialettali, questi sì che onorano i segni di interpunzione. E cita proprio l’aedo barese e una scena de Le Barìse a Venèzie.  “Mariette: Ci u pòte crète! Non nge hanna a crète, Colìne, acquànne àma dìsce ce còse sime viste. Colìne: Chèssa semàne ha passàte còme o vìnde. Non nge sime manghe avvertùte.”. “Che trionfo di segni” esclama il Punto Esclamativo  viva la lingua della gente. Quella immediata, che parla non solo con la mente, ma anche con il cuore, e, soprattutto, sa farsi capire da tutti”. 

E, in realtà, il “barese” di Domenico Triggiani non è fatto solo di fonemi dialettali, ma anche di inflessioni della voce, di rigurgiti gutturali, e finanche di modulazioni espressive che si colgono in una ruga o in un battito di ciglia. Insomma, il teatro dialettale è l’incontro tra la parola e la cultura più profonda di un luogo e della sua gente. “Ben detto e ben scritto”  si fa avanti Charles Bukowski, un altro impiegato narratore, la cui lingua era quella dei bar malfamati e degli angiporti, dove soleva rifugiarsi, dopo il lavoro all’ufficio postale di Los Angeles  che odiavo con tutto il cuore, ma che mi dava da mangiare e, soprattutto, da bere…”. 

“Un accostamento ben strano il tuo, questo tra Triggiani e Bukowski”  mi riprende, infastidito, Aristofane: proprio stasera, ad Epidauro, sarà di scena il suo Acarnesi e domani sera la Lisistrata, “che il tuo corregionale questa mia opera l’avrà certo letta e gli sarà piaciuta”. 

“Forse l’avrei dovuto accostare a te”  ribatto piccato a te che in tutte le tue commedie c’è l’Aristofane, con i suoi molti bersagli e le sue poche simpatie”. Mi rendo conto, tuttavia, di quanto nelle opere di Domenico Triggiani ci sia molto del commediografo ateniese, i personaggi della farsa popolare, la drammatica comicità di essi, e di come lo scrittore e poeta barese spesso chiudesse fuori dal suo studio la realtà, preferendo inventarla sulla pagina scritta. 

Il giro sul sellino della sua Lambretta è finito, la sua musa, Rosa Lettini, Ã¨ volata da lui e ora brilla nel suo firmamento. Un salto, però, giù al porto, e la prece di un pescatore: “Dea dei porti, una triglia scottata alla brace/ e un pescetto, io pescatore Mènide, ti dono./ Ho ricolmato una coppa di vino, spezzato del pane secco/ un’offerta rituale mìsera/ fa che in cambio, di prede mi tornino colme le reti: tutte le reti/ sono tue, beata” (Apollonide, Antologia Palatina, 103, libro VI).

 

Giornalista e scrittore