L’Uomo tra malattia e salute: sulle tracce della memoria


SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI
- "Vi sono molti casi che – sebbene presentino in modo inquietante i segni di una confusione di linguaggi tra paziente e medico – non mostrano apparentemente conflitti manifesti". (Michael Balint)

Scrivo queste riflessioni in seguito a vicende da me vissute: una sorta di accanimento terapeutico, quasi una messa in atto di situazioni inconsce da parte di tutti.

Maritain ha scritto che è necessario «fare in modo che la terra sia il regno degli uomini…»: in questa affermazione c’è il frutto di un’intensa riflessione sull’opportunità, ormai inderogabile, di lavorare per l’uomo, inteso nella sua dimensione di persona, nella dinamicità del suo essere e della sua stessa identità. D’altra parte «il movimento, nell’essere, è inconcepibile senza alterità nell’essere stesso».

Il pensiero di Maritain è oggi più che mai attuale all’interno delle varie problematiche culturali e sociali. È soltanto attraverso la conoscenza, il processo culturale – l’incivilimento di cui parla Freud – che l’uomo, l’“essere parlante”, si distingue dagli altri esseri viventi. Si chiarisce pertanto che l’idea di cultura contempla l’“intelligere” quale strumento critico di continua revisione di se stessi. La ragione si articola sul concetto di coscienza quale consapevolezza sempre parziale di sensazioni e di percezioni provenienti dal mondo esterno in stretta relazione con le risonanze presenti nel mondo interno di ciascun uomo. Risonanze che scaturiscono da arcaiche percezioni, da lontanissime indistinte emozioni di cui è “impregnato” sin dall’alba dei secoli, dalla vita prenatale, l’essere umano. La cultura è, secondo la nostra ottica, lo svelamento pieno dell’essere nella sua più profonda intimità, il processo dinamico secondo il quale l’essere si manifesta nella sua realizzazione individuale e storica: d’altra parte «l’umanità è compresente ontologicamente in ogni uomo: al di là di qualsiasi gerarchia, conoscersi è riconoscersi».

È evidente che qui trattasi del valore dell’uomo in grado di integrare identità e differenze, di esperire il sentimento dell’essere con l’Altro nel dolore e nella sofferenza. La cultura è sostanza di pensiero senza orizzonti e gerarchie.

L’universo umano in tal modo si configura in tutta la sua complessità, intriso di speranza per la realizzazione di nuove possibilità come al tempo in cui «Contesa non aveva sconfitto Amicizia… ed il mondo non era diventato la landa ingrata “dove si trovano strage e livore e di altri lutti le stirpi”».

È molto difficile vivere all’interno di questo contesto storico e sociale, spesso doloroso e per alcuni aspetti inquietante, talvolta terrifico: ma nel mondo il dolore cammina insieme alla speranza e alla gioia. Oggi gli aspetti problematici, quali espressione di un’epoca di angoscia, emergono sulla scena della realtà mentre disarticolano linguaggi, codici, culture, comportamenti.

Certo è che l’uomo è un “soggetto desiderante”: ma è proprio l’ascolto del proprio desiderio, di tutto ciò che è nascosto nei luoghi della memoria, che permette la genesi della consapevolezza del proprio essere persona e la costruzione di un nuovo Umanesimo in cui ciascun essere vivente possa essere riconosciuto e amato nella sua diversità, nei suoi disagi, nelle sue sofferenze. La relazione è in ogni caso un dono reciproco, uno scambio e una comunicazione. Credere, a volte, di poter dare senza ricevere significa voler gestire l’Altro, renderlo dipendente e in ogni caso subalterno. La reciprocità è fondamentale.

La reciprocità deve, in ogni modo, poter inscriversi in una relazione asimmetrica, in una sorta di trascendentalità che contempla quell’Agape che dona senza chiedere nulla. Balint, nel testo Medico, Paziente e Malattia, spesso fa riferimento alla “funzione apostolica” del medico.

L’ascolto del proprio “desiderio” è determinato da una serie pressoché infinita di variabili. Ma se non c’è ascolto del proprio “desiderio” e dunque del proprio Sé più profondo, non c’è ascolto dell’“Altro”. Si tratta di una effettiva difficoltà dell’“essere con l’Altro”, di comunicare, di vivere, di gioire e di soffrire, di condividere il dolore e la speranza.

In questa differente dimensione la salute non è una questione soltanto individuale, ma anche una problematica sociale, laddove per sociale si intende un insieme di persone, di individui, di identità.

La Scienza Medica richiede, quasi per sua stessa natura, abilità particolarmente umane, direi quasi in misura eccezionale. La prima regola è che il medico e il personale paramedico percepiscano di non essere soltanto dinanzi a un organo, e cioè a una parte del paziente, bensì dinanzi a una persona che soffre. Winnicott afferma che riconoscere il malato pone «nel ruolo di chi dà una risposta al bisogno, cioè di adattamento, di sollecitudine e di affidabilità; di cura nel senso di prendersi cura». Prendersi cura dell’Altro è anche in parte prendersi cura di Sé. In Winnicott si legge: «Abbiamo bisogno dei nostri pazienti tanto quanto loro hanno bisogno di noi». Fondamentale ci sembra, da parte del medico, la comprensione non solo della patologia del paziente, ma anche della dinamica sottostante, i conflitti e i problemi. Si tratta, infatti, della totalità del paziente.

La parcellizzazione dell’Altro in realtà, a volte, non rappresenta se non una nostra difesa nei confronti di situazioni e istanze. Viviamo tutti all’interno di specularità labirintiche, rese ancor più problematiche da una deriva tecnicistica.

La malattia è un evento che di solito ha radici antiche, celate nei luoghi più oscuri della nostra memoria: ma la malattia è una parola. Una metafora che svela quella zona d’ombra che ci divide dal mistero.

Una parola non detta. Un antico lamento, un dolore organizzato, un messaggio e un linguaggio.

Masud Khan, d’altra parte, scrive che «l’iconografia della presenza corporale di un paziente deve essere ancora articolata nella sua grammatica e semantica, ma la nostra ignoranza non dovrebbe condurci a credere erroneamente che essa non esista o non sia importante».

Il misterioso linguaggio del corpo.

«L’osservazione psicoanalitica diretta – scrive Balint – non fornisce dei dati soddisfacenti per elaborare una teoria, ma ci si serve proprio della scienza medica che, nel corso dei secoli, ha sviluppato determinate teorie sulla natura della malattia».

Nella forma più semplice si può ipotizzare l’individuo inizialmente sano, la cui armonia viene turbata da «un agente esterno» che disturba le difese del suo corpo e della sua mente. La malattia, secondo questa visione, è la somma del “danno originale” e delle difese del corpo: in ogni caso presuppone un oggetto esterno “cattivo” e un soggetto “buono”. Probabilmente la magia primitiva, l’idea dello stregone, in grado di curare e di guarire, scaturivano da questa convinzione.

Chiaramente, più breve è la malattia, meno si crederà alla reale esistenza dell’“oggetto cattivo”; ma se il paziente “prende” troppe infezioni, se facilmente si frattura qualcosa del suo corpo, se si parla di ipersensibilità, allora si incomincia ad avere la sensazione che forse la malattia è una “qualità particolare” di quel paziente, come affermano molti studiosi.

Indirettamente ci si chiede se è primaria la malattia organica o un certo tipo di personalità.

Fino a qualche tempo fa, si credeva che ogni malattia generasse una “struttura nevrotica”. Con Groddeck, Freud, Ferenczi, Balint, il pensiero clinico si è in parte modificato, determinando quella branca che oggi si chiama medicina psicosomatica. In ogni caso si ipotizza più facilmente la possibilità che l’insorgere di una malattia stia al posto di una “domanda” del paziente. In ogni caso una domanda d’amore.

Sempre Balint invita a riflettere sulla storia dell’individuo, del paziente nei suoi primi due anni di vita, anzi nei primi mesi di vita: è chiaro che questo lavoro non è compito peculiare del medico o del personale infermieristico, ma la riflessione di Balint è utile per costruire la percezione del paziente come “persona” e non solo come “organo”. Al di là della malattia, infatti, c’è un problema, un conflitto e, si ripete ancora, una parola in attesa di essere pronunciata.

Ed è in tale prospettiva che, all’interno di una struttura sanitaria, la funzione del personale paramedico, insieme a quella del medico, diviene fondamentale e terapeutica. Essenziale è non solo aggiornarsi, ma formarsi ad un “ascolto” di se stessi. Nel delicato rapporto che si stabilisce tra medico, infermiere e paziente, oltre che personale volontario, emergono numerose problematiche che rendono il rapporto complesso, ma proprio per questo estremamente costruttivo per tutti, nonché fondamentale per l’istituzione e le strutture sanitarie.

Non a caso una delle più interessanti riflessioni di Balint è, come già affermato, quella relativa alla funzione apostolica del medico: «Tutto avviene come se ogni medico possedesse la conoscenza rivelata di ciò che i pazienti hanno diritto o no di sperare e di ciò che devono sopportare, e inoltre avesse il sacro dovere di convertire alla sua fede tutti i pazienti ignoranti e increduli».

Dal momento in cui il paziente “organizza” il suo antico lamento in una “malattia” e si determinano processi secondari e una nuova concreta situazione di vita alla quale il paziente deve adattarsi, la funzione del medico e del paramedico diviene sempre più importante. Ed è proprio questo riadattamento che assorbe forse anche parte delle energie riservate ai poteri fisiologici di difesa: il riadattamento appare multidimensionale ed estremamente complesso.

Dalla ferita narcisista al senso di impotenza: dall’essere integro all’essere ferito al percepirsi inerme. Una delle componenti più forti e pregnanti della psiche umana è proprio il narcisismo, che a sua volta può essere primario e secondario: l’uomo sente di essere indistruttibile e degno di essere amato, ma le esperienze gli dimostrano che non è così, per cui il narcisismo, che a tutti opportunamente appartiene, viene più volte ferito.

L’adattamento alla malattia non è mai facile, anche se questa è stata inconsciamente “organizzata”, poiché non è facile riconoscere ciò che la malattia, in realtà, rappresenti, e quale “parola” possa significare o al posto di quale domanda essa sia.

Come molti studiosi affermano, è impossibile non notare, anche per lo sguardo più inesperto, come in quasi tutte le malattie gastriche e in alcune malattie metaboliche emerga in primo piano l’enorme importanza del mangiare, del “cibo” e dell’attenzione particolare che questo problema richiede: dal nostro punto di vista potrebbe significare il voler incorporare il “seno buono” della madre per sempre dentro di sé. Ed ambivalentemente con il tempo, come è proprio della natura umana, lo stesso “seno buono” può trasformarsi persecutoriamente in “seno cattivo”, con tutti i problemi che ne scaturiscono. Rabbia, distruttività, odio. Sentimenti, questi, che però potrebbero dar luogo, in seguito a faticose rielaborazioni, anche a creatività, amore e gratitudine, come insegna M. Klein.

Non sfugge neanche come alcune malattie degli organi uro-genitali, quali per esempio la cistite in genere e quella interstiziale in particolare, celino da parte del paziente il desiderio di sottrarsi ai rapporti umani ritenuti frustranti o insoddisfacenti. In ultima analisi abbiamo le “regressioni” che implicano in maggiore misura la comparsa di forme di comportamento “infantile” nell’adulto.

La regressione è però lungi dall’essere chiara: ed è qui che si gioca il rapporto complesso che si stabilisce tra il personale medico, infermieristico e il paziente insieme a tutta la costellazione familiare. Balint scrive che «ogni medico riconoscerà che l’atteggiamento del paziente verso la malattia è della massima importanza per qualsiasi terapia, e che spetta al medico “educare” il paziente alla collaborazione».

In ogni caso la “malattia” è utilizzata dal paziente per dire ciò che in altre parole non può essere detto. Si stabiliscono, così, quei vantaggi secondari che sembrano permettere e sostenere la malattia stessa.

A questo punto si aprono gli scenari di un mondo sconosciuto, nascosto tra le pieghe della memoria, implicita ed esplicita, lungo i ricordi dolorosi e al medesimo tempo gratificanti e piacevoli della primissima infanzia, di quell’universo che si «struttura come un linguaggio» (Cfr. J. Lacan): un universo “inconscio” e dunque di difficile accesso.

Intervenire sul paziente significa, tra l’altro e come già detto, anche entrare in relazione innanzitutto con se stessi, con le proprie paure, il proprio narcisismo, le proprie regressioni: insomma con il proprio Sé.

Naturalmente tutto ciò vale, in misura differente, per qualsiasi tipo di problematica, per qualsiasi lamento e malattia, poiché attraverso il lamento dell’“Altro”, attraverso la malattia dell’“Altro”, entriamo in intima relazione con il nostro lamento e le nostre parti malate, da noi rimosse e spesso negate.

Il senso di questo contributo si inscrive, dunque, nell’invito all’“ascolto”, ad una ricerca “interminabile” con punti di riferimento che riguardano innanzi tutto noi stessi, la coscienza del nostro soffrire che ci consente l’“empatia” con l’Altro, inteso nella sua pienezza di “persona”, nel momento della malattia, della guarigione, della nascita, della vita, della morte.