Belgio, la scelta di Siska: eutanasia a 26 anni dopo anni di depressione


La giovane fiamminga ha voluto accendere un faro sui disturbi mentali: “Il mio è un messaggio, non una resa”

BRUXELLES – Si chiamava Siska De Ruyssche, aveva 26 anni e da anni combatteva contro una depressione profonda e resistente a ogni terapia. Domenica scorsa ha scelto di porre fine alla sua sofferenza ricorrendo all’eutanasia, legale in Belgio dal 2002. È morta serenamente, circondata dai suoi familiari e dagli amici più cari.

Solo pochi mesi fa, in estate, Siska era in Thailandia. Le foto sui social la mostravano sorridente, capelli lunghi sciolti, trucco leggero, mani curate. “Era il suo ultimo tentativo di vivere”, raccontano gli amici. Ma il male interiore non le ha lasciato scampo. “Alzarsi, vestirsi, anche le più piccole cose sono diventate una lotta impossibile”, aveva detto in un’intervista.

Siska ha voluto che la sua storia diventasse un messaggio, una testimonianza per ricordare che la sofferenza mentale può essere devastante quanto una malattia fisica, e che l’assistenza psicologica deve essere considerata una priorità.

Il messaggio sulla salute mentale

“Racconto la mia storia perché penso che molte cose possano essere migliorate nell'assistenza – diceva in un’intervista pubblicata il 18 ottobre da Het Laatste Nieuws –. Le procedure, le liste d’attesa, i rimborsi, i ricoveri. Io stessa sono il prodotto di un sistema carente. Sono stata in celle di isolamento, legata a barelle, e ho visto infermiere alzare gli occhi al cielo come a dire: ‘Eccola di nuovo’”.

Nonostante le cure e i numerosi tentativi terapeutici, Siska non è riuscita a uscire dal tunnel. “Per molti altri – aggiungeva – le cure possono e devono fare la differenza. Il mio caso non deve essere la regola, ma un campanello d’allarme”.

Un calvario iniziato da bambina

Il dolore di Siska affonda le radici nell’infanzia. “Sono stata vittima di bullismo all’asilo e poi alle elementari. Pensavo di non essere abbastanza”, raccontava. Il primo tentativo di suicidio risale a quando aveva appena 14 anni: “Avevo preso una miscela di pillole, ma ho vomitato. I miei genitori pensarono fosse una gastroenterite”.

Da allora, la giovane ha tentato di togliersi la vita decine di volte. “Ci ho provato quaranta volte. Mi hanno fermata o mi sono salvata da sola.” Nel frattempo aveva costruito una vita apparentemente normale: era diventata zia, aveva viaggiato, si era innamorata, aveva lavorato con i minori. Ma il dolore non l’ha mai abbandonata.

“Ho fatto ogni tipo di terapia – diceva –: della parola, sportiva, creativa, EMDR, familiare, con gli animali. Ho lavorato in una fattoria di cura. Ho preso farmaci. Quanto ancora avrei dovuto provare?”.

“Ora sono in pace”

Il lungo percorso per ottenere l’autorizzazione all’eutanasia le ha restituito un senso di pace. “Finalmente ho una diagnosi vera: grave disturbo depressivo, disturbo dell’attaccamento e sindrome da stress post-traumatico. È come se tutti i pezzi del puzzle fossero andati a posto.”

Con la certezza di una fine prossima, Siska diceva di sentirsi più serena: “Ora sono in pace, perché so che finirà. Che c’è una data di scadenza.”

“Egoista? No, finalmente penso a me”

A chi l’ha accusata di egoismo, Siska ha risposto con parole che riassumono il suo stato d’animo: “Molti dicono che l’eutanasia è un gesto egoistico verso chi ti ama. Ma bisogna vederla dal lato opposto. Sono rimasta molto più a lungo di quanto avrei voluto. L’ho fatto più per loro che per me. Ora tocca a me.”

In un colloquio con uno psicologo, le era stato chiesto perché non avesse scelto un suicidio violento. “Perché non volevo traumatizzare nessuno: passanti, autisti, macchinisti. Non volevo lasciare dolore gratuito.”

Il suo ultimo messaggio resta inciso nelle parole con cui ha salutato il mondo: “Non voglio essere ricordata per come me ne vado, ma per aver cercato, fino all’ultimo, di vivere davvero.”