La fragilità strutturale: come tenere assieme ciò che si incrina


A volte non è un crollo a segnare un limite ma una piccola crepa che non fa rumore, eppure resta lì, visibile solo a chi si ferma abbastanza a lungo da notarla. E da quelle incrinature silenziose che spesso prende forma ciò che siamo. La fragilità strutturale non riguarda l’eccezione ma la norma. Non è l’evento traumatico che spezza, bensì la tensione continua che ci attraversa senza distruggerci del tutto: è una condizione di tenuta precaria, in cui qualcosa resiste pur mostrando i segni della fatica. L’equivoco più diffuso si annida proprio qui: pensare la fragilità come sinonimo di fallimento. In realtà molti individui restano in piedi perché hanno imparato a convivere con ciò che non è perfettamente integro.

C’è una differenza importante tra ciò che è fragile perché instabile e ciò che è fragile perché esposto: l’instabilità chiede contenimento; l’esposizione chiede cura. Nel primo caso si tenta di correggere, nel secondo di comprendere, e la fragilità strutturale appartiene a questa seconda categoria. Non è un difetto da eliminare ma una condizione da abitare. Le strutture -sociali, educative, relazionali- non si incrinano all’improvviso: lo fanno per accumulo, per attrito, per adattamenti successivi che, uno dopo l’altro, ne modificano l’equilibrio originario. 

Ogni aggiustamento risolve un problema immediato, lasciando una traccia. Nel tempo, quelle tracce diventano linee di tensione, punti di vulnerabilità che non impediscono il normale funzionamento ma ne rivelano il costo. Come strutture che, se troppo compatte cedono sotto pressione, ma se attraversate da fessure redistribuiscono il peso, uomini e donne hanno imparato a tenere insieme ciò che si incrina senza irrigidirsi ma rendendosi capaci di assorbire l’urto. Questo è un principio che vale tanto per l’architettura quanto per le relazioni umane: ciò che non ammette flessibilità finisce per rompersi.

Nel pensiero contemporaneo questa idea è stata esplorata attraverso metafore materiali. Il kintsugi, antica pratica giapponese che ripara la ceramica rotta con oro, non nasconde la frattura ma la evidenzia. La crepa non viene cancellata ma integrata in una nuova forma. Non si torna allo stato precedente: si genera un’altra configurazione, diversa e irripetibile. La fragilità diventa parte della struttura, non un errore da mascherare.

Applicare questo sguardo ai contesti educativi e sociali significa rinunciare all’illusione della perfezione e accettare che gli individui non sono mai completamente stabili, né definitivamente compiuti. Ogni comunità, ogni percorso formativo, ogni legame, è attraversato da punti di stress: aspettative non allineate, risorse insufficienti, storie personali che non combaciano. La fragilità strutturale emerge proprio dove l’ideale astratto entra in contrasto con la realtà concreta e tenerla insieme non significa negarla ma, al contrario, richiede di riconoscerla apertamente e di darle un linguaggio. Quando una struttura finge di essere solida, costringe chi la abita a nascondere le proprie crepe individuali; quando invece ammette la propria parzialità, apre spazi di negoziazione, di adattamento, di ascolto reciproco. La fragilità condivisa diventa allora un terreno di incontro, non un marchio di insufficienza.

C’è anche una fragilità che nasce dal tentativo di tenere insieme troppo: accumulare ruoli, aspettative, responsabilità, senza concedersi le giuste pause, ci rende apparentemente funzionanti ma internamente tesi. In questi casi l’incrinatura non è visibile dall’esterno: emerge solo nei momenti di cedimento, quando qualcosa smette di reggere e rivela quanto fosse sottile l’equilibrio. La fragilità strutturale ci obbliga allora a ripensare l’idea stessa di tenuta: non si tratta di conservare le forme così come sono ma di permettere loro di trasformarsi. Tenere insieme è un esercizio di equilibrio dinamico, una pratica continua di aggiustamento, come accade nei ponti sospesi, che non resistono perché immobili ma perché capaci di oscillare senza spezzarsi. In questa prospettiva, la fragilità smette di essere una minaccia e diventa una soglia, indicando il punto in cui una struttura può evolvere, se accetta di rivedere le proprie rigidità.

Tenere insieme ciò che si incrina inoltre, significa accettare una certa dose di incompiutezza. Non tutte le crepe possono essere sanate e non tutte le tensioni risolte: alcune vanno semplicemente sostenute, accompagnate, attraversate. È un lavoro che richiede attenzione costante ma anche la capacità di rinunciare al controllo. Il punto non è eliminare la fragilità ma imparare a riconoscerne la funzione senza negarla, restando vigili, presenti e responsabili e accettando le tracce delle proprie tensioni, da cui nascono altri modi di stare insieme.

Questa prospettiva trova risonanze importanti anche nel pensiero contemporaneo. Zygmunt Bauman, parlando di società “liquida”(2002), ha mostrato come le strutture rigide siano sempre meno capaci di reggere l’incertezza, mentre quelle flessibili, pur fragili, risultano più adattive.

Judith Butler, in Vite precarie ( 2004), ha spinto oltre il ragionamento, mostrando come la vulnerabilità non sia una condizione marginale ma il fondamento stesso delle relazioni umane. La precarietà, lungi dall’essere un difetto da eliminare, diventa ciò che ci espone all’altro, ciò che rende possibile una responsabilità reciproca. Butler non parla di fragilità come mancanza ma come apertura: siamo esposti perché siamo vivi, e proprio per questo siamo chiamati a prenderci cura gli uni degli altri.

Anche Edgar Morin, nel suo pensiero sulla complessità, invita a diffidare delle strutture che si dichiarano autosufficienti. In La testa ben fatta (2000), insiste sulla necessità di sistemi capaci di integrare l’incertezza, di pensare insieme ordine e disordine, stabilità e crisi. Una struttura che rifiuta l’instabilità come parte costitutiva del reale finisce per produrre solo rigidità difensive. Morin suggerisce invece un pensiero capace di tenere insieme ciò che appare contraddittorio, riconoscendo che ogni sistema vivo è attraversato da tensioni che non possono essere risolte una volta per tutte. La fragilità strutturale, in questa prospettiva, non è una patologia ma una condizione epistemologica: indica il punto in cui il sapere smette di semplificare e inizia a farsi responsabile della complessità che attraversa il reale. Accettarla significa allora rinunciare a soluzioni definitive, a modelli salvifici, a narrazioni rassicuranti; significa lavorare su equilibri provvisori, sapendo che ogni forma di tenuta è sempre situata, temporanea, rinegoziabile.

In questa chiave, tenere insieme ciò che si incrina non è un gesto eroico, né un atto di forza ma piuttosto un esercizio di attenzione continua. Richiede la capacità di leggere i segnali deboli, di ascoltare ciò che non è ancora esploso, di intervenire senza invadere.

È una pratica discreta, spesso invisibile, che non promette stabilità assoluta ma una continuità possibile. Non si tratta di evitare le crepe ma di imparare a riconoscerle prima che diventino fratture irreversibili; di ospitare l’incrinatura senza trasformarla in colpa.

Tenere insieme ciò che si incrina significa accettare che la solidità non coincide con l’assenza di fragilità ma con la capacità di attraversarla senza negarla. È in questa tensione, mai risolta del tutto, che le strutture, personali e collettive, continuano a esistere. Non perché indistruttibili ma perché capaci di restare in relazione con ciò che le mette alla prova.



Articolo a cura di Veronica Di Mauro

(Autrice di @Cronache Creative https://cronachecreative.wordpress.com )