Marcinelle, ha 60 anni il cuore di tenebra d'Europa

di FRANCESCO GRECO — Di Pompeo Bruno non rimase nulla. A Bois du Cazier (“grande tomba”), a 975 m. di profondità, nel cuore di tenebra del Belgio e dell'Europa (“carbone necessario per la ricostruzione postbellica”), la “morte nera” arrivò a tradimento e “vampate selvagge” lo divorarono. Non restò uno straccio bruciacchiato, un femore nero, un pezzo di carne. 262 (12 nazionalità, di cui 136 italiani) vittime sacrificali sull'ara del progresso e la civiltà, a un secolo dalla “rivoluzione industriale”. E non erano le prime. Belgìc, Belgìc!

Aveva 28 anni e nella valigia scorticata aveva fame di pane e dignità. Sulla pelle la salsedine del Mediterraneo. Partito da Racale (Lecce), il Sud annesso dai Savoia (i flussi iniziano dopo il 1860). Famiglia contadina, patriarcale, bocche da sfamare. Chissà a chi venne l'idea del funerale con la bara vuota. Nella terra di Carmelo Bene, genio sulfureo. La madre voleva una tomba dove portare un fiore di campo una volta l'anno. Il paese s'affollò dietro a quattro assi di legno inchiodate in fretta, il prete le benedì. Silenzio metafisico, da film espressionista. Una messa d'autunno (i funerali dei “macaroni” avvennero mesi dopo), crepuscolare.

Uno choc per l'Italia del “sorpasso”, dove iniziava il rito delle vacanze di massa e le cambiali (“stili di vita”) e in un agosto canicolare dopo un inverno freddissimo “il dolore privato diventò collettivo”. Si “scoprì” su cosa si reggeva il boom economico ai primi passi: un'Italia “stracciona e miserabile che moriva in miniera”. Nei paesi dei minatori, a Manoppello, trovarono “un tenore di vita bassissimo”, Rocco e i suoi fratelli, eredi dei Malavoglia, compravano tutto con la “libretta”.

Belle firme, belle pagine. Il giornalismo mutò i suoi codici; se non è leggenda, fu per poco, poi riprese ciò che i tedeschi chiamano con sprezzo “giornalismo di relazione“ (servilismo, veline, censure). Buzzati (“Corriere della Sera”): “...nell'inferno della miniera arroventata, si sta svolgendo la tremenda lotta per liberare i minatori...”, “è come se fosse sprofondato un intero paese con i suoi abitanti”. Grande Dino!

“Il Tempo” di Angiolillo scrisse di incidente “annunciato”, e non era il primo: in 9 anni 1164 morti (435 italiani), la “legione straniera” (Polonia, Cecoslovacchia, Russia, Ucraina, Marocco “ammassati in campi di condizioni di vita pietose”). Sotto le mine tutto era vecchio, superato, scandaloso. Compagnie avare, governo complice (“coprire le società carbonifere”).

Oggi, a 60 anni dalla “morte nera”, un saggio di grande potenza evocativa, dalle efficaci scansioni socio-economiche-culturali-antropologiche evoca le foto di Salgado, anche se le sue miniere brasiliane sono un girone infernale, ma all'aperto. A Marcinelle i dannati si trascinavano “sui ginocchi e sui gomiti”, 8 ore nudi in cunicoli di 90 cm., senza cognizione del tempo, respirando un “veleno che corrode e stronca i più robusti organismi”. Quando le mutande erano fradice, se le toglievano, le strizzavano, se le rimettevano. Anche così è nato il mito della quinta potenza industriale, col “perenne rischio dello scoppio, dell'incendio, del crollo, dell'asfissia”.

Ma le tragedie si reggono sull'omertà di chi sta in alto e sa che “il bisogno è più brutto che picchiare il padre” (Manuel Scorza). “La responsabilità dei governanti italiani all'epoca è molto pesante. Li hanno venduti” (Anne Morelli). Ricciardi è più esplicito: “Emigrazione di Stato”. Le “classi dirigenti” del paese sapevano bene perché i belgi non volevano scendere laggiù.

Il governo incitava all'espatrio con deliziosi manifesti rosa 70x100 sparsi dal nord al sud: aveva fame di carbone e con “l'accordo di deportazione” del 23 giugno 1946 ne avrebbe avuto un tot per ogni “macarone”. In Parlamento “tutti i partiti, nessuno escluso, furono favorevoli a scambiare minatori con carbone”. Poi l'8 agosto sinistra e sindacato caddero dalle nuvole: sempre “dopo”, mai “prima”. Un anno dopo si scoprì che le rimesse “tardavano ad arrivare e quando arrivavano erano inferiori a quanto il minatore sperasse”. Facevano la “cresta”.

Lo Stato vestì i panni insulsi dello “scafista” offrendo “2000 minatori a settimana”. Vendette i suoi figli (“Incrementate l'emigrazione”, Fanfani, ministro del lavoro). Poteva mancare l'atout del sottobosco di “trafficanti di migranti”? Giammai, le mafie annusarono il business “individui privi di scrupoli, cooperative, società di spregiudicati...”. Pare però che i belgi fecero i furbi, come gli italiani: il carbone pattuito Roma non lo vide mai.

Per partire si dovevano superare tre visite: “medica, professionale e politica”. “Controllo della pianta dei piedi e del palmo della mano”. “Nudo come mi ha messo al mondo la natura... Davanti alle dottoresse giovani, che dovevamo girarci per la vergogna”. Molti gli scartati, oltre un terzo di chi partiva: ernie, ipertrofia tiroidea, anemia, insufficienza muscolare e cardiaca. Ripartivano in lacrime, tornavano a zappare le terre dei baroni da sole a sole per un tozzo di pane nero (“scarsa qualità di manodopera proveniente dal Meridione”).

60 anni dopo “la mortale trappola... mi sono buttato in terra, non ci vedevo più... ma dopo non è salito più nessuno... Mamma perché corri così?... come mai questo treno stamattina non porta il carbone?”, stesso paesaggio con scafisti. Gli alieni dai sud del mondo bevono la cicuta amara, il popolo dei barconi che affoga nel Mediterraneo. La storia non è “magistra vitae”, caro Cicerone. E ieri il Cile: “La terra ci ha inghiottito... Non temiamo la morte! Perché la morte l'abbiamo già sconfitta una volta” (i minatori cileni che, agosto 2010, rimasero intrappolati per 69 giorni a 700 metri di nelle miniere di oro e rame di San Josè).

L'altro ieri quelli inglesi, sciopero a oltranza, e poi “Incondizionata e amara fu, invece, la resa dei minatori inglesi che serrarono le braccia per un anno intero, tra il 1984 e il 1985...”. Ma vinse la Tathcher tutta borsette e rigore: oh, my diary!

Marcinelle è stata rimossa (per Jan Assmann la memoria dura 40 anni): è trendy scrivere di talent e altro cloroformio: le coscienze assonnate si dominano meglio. Ma l'8 agosto è vicino e quel piccolo “olocausto” fa scandalo per chi crede nella forza e la semantica del ricordo. “Prima non tossivo mai e adesso non me la posso levare. E il curioso è che sputo, sputo...” (“Germinal”, Zola).

A un anno da “Morire a Mattmark” (la diga assassina, 30 agosto 1965, stesso editore) ecco “Marcinelle, 1956” (Quando la vita valeva meno del carbone), di Toni Ricciardi, Donzelli editore, Roma 2016, collana “Saggi”, pp. 175, euro 24 (con il capitolo “Pane amaro”, di Annacarla Valeriano – che ha contribuito a fondare l'archivio audiovisivo della memoria abruzzese dell'Università di Teramo - e un apparato fotografico – la forza devastante del b/n - che è più dialettico di una babele di parole).

Studioso autorevole, storico delle migrazioni all'Università di Ginevra, autore del primo “Dizionario enciclopedico delle migrazioni nel mondo”, ha ricostruito “uno dei tasselli più dolorosi del variegato mosaico delle migrazioni italiane nel mondo”. Un lavoro possente, analitico, ben documentato, che andrebbe adottato nelle scuole di un paese smemorato, per dire alle nuove generazioni tutte selfie e sballo che è amaro il pane intriso di “polvere di carbone impalpabile, invisibile, micidiale per gli occhi, per i polmoni e per il fegato... Per cosa sono morti?”. E, corsi e ricorsi, fra precariato e lavoro che non c'è o sfuma, tutto torna al punto di partenza.

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