Il dialetto? Un bene da salvaguardare

di VITTORIO POLITO - È sufficientemente noto che l’utilizzo del dialetto dà una maggiore vivacità e spontaneità anche all’opera letteraria e, spesso, molti scrittori romantici rivalutano il dialetto per la sua vicinanza al popolo. Pertanto il dialetto, chiunque lo usi, rappresenta una risorsa espressiva in più e quanto mai utile a colorire un discorso, una poesia, una prosa, rendendo immediata la sua comprensione.

Il dialetto, quindi, rappresenta un patrimonio da non disperdere in quanto strumento di comunicazione, di cultura, ma anche di tradizioni, usi, costumi. Il dialetto è anche una forma di linguaggio verbale più immediata e nello stesso tempo più sofisticata, in quanto riesce ad imprimere quel tanto di drammatizzazione al nostro parlare, funzionando l’espressione dialettale come efficace rafforzamento del nostro eloquio.

Nel novembre 1999 un gruppo di assessori delle Regioni Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e della Provincia autonoma di Trento, si riunirono a Palazzo Balbi a Venezia stilando un accordo per il recupero, la conservazione e la tutela del dialetto per la salvaguardia delle “tradizioni orali”, mentre il Consiglio comunale di Torino approvò, a larga maggioranza, un ordine del giorno inteso a far riconoscere da parte dello Stato la lingua piemontese, a tutela delle minoranze linguistiche.

È il caso di ricordare che anche Gesù parlava una varietà dialettale dell’aramaico, una lingua appartenente al gruppo occidentale delle lingue semitiche. Lo stesso Vangelo è stato scritto in aramaico, mentre San Francesco, un anno prima di morire, completamente cieco, ma fortemente illuminato, cantò il “Cantico delle Creature” scritto in “volgare”, per non parlare di Goldoni, Edoardo De Filippo, Totò, Gilberto Govi, Trilussa, tanto per citare i più noti.

In riferimento poi al dialetto barese l’elenco di scrittori, commediografi e poeti dialettali è abbastanza lungo e lo spazio non consente di citarli tutti. Ne ricorderò qualcuno, solo a mo’ di esempio: Francesco Saverio Abbrescia, primo poeta dialettale; Alfredo Giovine, con le sue numerose pubblicazioni; Giovanni Panza con il suo libro “La checine de nononne” (Schena), una sorta di bibbia bilingue (italiano e dialetto) della cucina barese; Vito Maurogiovanni, giornalista, scrittore e commediografo di cultura popolare con il suo “Il Teatro” e “U Café antiche” (Levante), per non parlare dei suoi capolavori dialettali, “Jarche vasce”, replicati oltre tremila volte, le cui recite si protraggono da oltre trent’anni, e del dramma teatrale “La passione de Criste”, trasmesso anche da Raitre; Domenico Triggiani, le cui commedie in vernacolo costituiscono un importante contributo teso a recuperare la memoria storica del territorio con i suoi tre volumi di teatro dialettale editi da Levante, Capone ed Editrice Tipografica. Triggiani è altresì autore del primo romanzo storico-satirico in vernacolo barese, “Da Adame ad Andriotte” (Schena), scritto con la moglie Rosa Lettini, con presentazione di V.A. Melchiorre. Grazie a Triggiani, il dialetto barese ha varcato non solo i confini regionali, ma anche quelli nazionali, raggiungendo praticamente tutto il mondo.

I poeti dialettali baresi non si contano: da Francesco Saverio Abbrescia, canonico e primo poeta dialettale barese, a Gaetano Granieri, Giovanni Laricchia, Giuseppe Capriati, Gaetano Savelli, quest’ultimo ha tradotto la Divina Commedia in dialetto barese, Michele Bellomo, Nicola Macina, Onofrio Gonnella (Ogon), Giuseppe Romito, Arturo Santoro, Francesco Lopez, Vito De Fano, Giovanni Panza, Francesca Romana Capriati, Marcello Catinella, Maria D’Apolito Conese, Ettore De Nobili, Giuseppe De Benedictis, Agnese Palummo, Giuseppe Gioia, Peppino Franco, Lorenzo Gentile, Franca Fabris Angelillo, Luigi Canonico, Santa Vetturi, Peppino Zaccaro, Felice Alloggio, Emanuele Battista, i quali ultimi hanno scritto anche commedie dialettali rappresentate con successo. Citati o non citati l’applauso va a tutti.

Anche la medicina ha dato una mano a dare importanza universale al dialetto. Infatti nel 1513 fu pubblicato a Strasburgo un libro intitolato “Der swangern Frauen und Hebammen Rosengarten”, cioè “Il Roseto delle donne incinte e delle levatrici”. L’autore, Eucario Roesslin, medico a Worms e Francoforte, non diceva nulla di originale però lo scriveva in volgare e non in latino, e la pubblicazione divenne il primo manuale per levatrici ed ebbe larghissima diffusione.

Il dialetto, in conclusione, è anche un universo verbale a suo modo “colto”, più colto dell'italiano piatto e banale imposto dai mezzi di comunicazione e degradato dall’uso che ne fanno i giovani attraverso i loro messaggi criptati,

Esprimiamoci quindi liberamente nel nostro dialetto, che rappresenta anche un ulteriore mezzo per abbattere le barriere della comunicazione e, soprattutto, insegniamolo ai nostri figli per conservare nel tempo la memoria storica da tramandare alle generazioni future.

Per restare in tema, eccovi alcune strofe di una poesia di Peppino Franco dal titolo “Dialette bedde mì sì nnu tresore”, nella quale l’autore esprime tutto il suo amore per la lingua dei nostri nonni, ipotizzando che il dialetto è stato inventato da Dio e che fu Lui stesso il primo a parlarlo.

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Ci sape quanda volte sò ppenzàte
a cci ha parlàte apprime nu dialette;
fù ’u Paddretèrne acquànne ngi ha creiàte?
Percè nzijme ’o serpènde, Adame ed Eve
e ttutte l’alde ch’onne nate doppe,
s’avèvena parlà trà llòre e llòre,
e nnu segnàle o ’na paròle stève.
E allore certamende le dialette,
iè state ’u Terneddì ca l’ha nvendàte.
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