Letteratura: l'influenza di Corradino di Svevia, l'ultimo degli Svevi
di Maria Teresa Lattarulo
“O rea fortuna, ognor senza consiglio il mondo reggi! Ben son ciechi i doni che versa la tua man. Sull’aureo soglio siede il delitto fortunato, e preme l’infelice virtù col piè superbo” (F.M. Pagano). Dal Tredicesimo secolo la figura dolce e giovane di Corradino, l’ultimo degli Svevi, icona storiografica della regalità infelice e della virtù tradita, ha esercitato una patetica influenza sull’immaginario letterario italiano, da Dante al dramma secentesco, incentrato sulla ragion di Stato e sul potere, fino ad un autore tardo-romantico quale Aleardo Aleardi. Ne ha parlato la prof.ssa Grazia Distaso, preside dal 2006 della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, ordinaria di Letteratura italiana, coordinatrice del Dottorato di ricerca in Italianistica ed esperta del rapporto fra letteratura e teatro e letteratura e musica, in un incontro tenutosi, nell’ambito del ciclo dei “mercoledì con la storia”, il 17 novembre 2010 presso la libreria Laterza.
La lezione della prof.ssa Distaso ha trattato, in modo particolare, il Corradino di Svevia del Pagano, opera teatrale settecentesca il cui testo è stato da lei curato in una recente edizione che riporta, in appendice, anche il Corradino del Chiovenda, noto giurista italiano dello scorso secolo.
L’interesse alla figura di Corradino si sviluppa infatti soprattutto nel contesto napoletano. Nella storiografia essa emerge già nelle Cronache di Villani, nella Storia del Regno di Napoli di Pandolfo Collenuccio nel Quattrocento e poi in Muratori negli Annali. Emerge dopo nella letteratura, fra la fine del Cinquecento e il Seicento, perché viene a essere figura centrale nella tragedia politica, essendo collegata al tema della regalità. La prima attestazione di un interesse per la figura di Corradino ci è offerta dall’Accademia bitontina degli Infiammati, un’accademia seicentesca che fu una vera fucina teatrale. Verso la fine del Seicento un autore salentino formatosi a Napoli, Antonio Caraccio da Nardò, pubblica a Roma una tragedia su Corradino.
Già Caraccio sottolineava come il sovrano dovesse avere il dominio delle passioni e raggiungere una sovranità in cui si affermava l’equilibrio e ci si ispirava alle leggi della ragione e della natura. Tali principi, come ha sottolineato la prof.ssa Distaso, erano ispirati alla concezione classica, per esempio alla clemenza di cui aveva parlato Seneca nel trattato “De clementia”, nonché ad autori dell’Umanesimo meridionale come il Contano. Secondo Caraccio la maestà dei re sta nel rispetto dei popoli: “La maestà senza rispetto è un nome senza sostanza e senza corpo un’ombra”.
Napoli è la città di Vico, in cui si afferma una filosofia della storia incentrata sui cicli di civiltà che erano scanditi da catastrofi naturali immani che creavano una rivoluzione, conducendo ad un nuovo ciclo di civiltà. E’ anche la città del grande Genovesi, di Filangieri, di Taviani, gli illuministi che si occupavano di letteratura, di diritto, di economia civile e politica. Essa, come ha rimarcato la prof.ssa Distaso, riesce a “coordinare, attraverso il riferimento a questi autori europei, una serie di movimenti politici e ideologici”.
Pagano è uno degli allievi prediletti di Antonio Genovesi. Sceglie il Corradino perché simbolo della sventura che insidia il potere. Egli riteneva, infatti, che la poesia dovesse essere portatrice di passioni forti, vive, perché nella realtà non c’era più la possibilità di azioni vere. A livello di ideologia Pagano era sensista e, secondo lui, le passioni sono un antidoto alla noia. L’Illuminismo, e proprio Voltaire, aveva parlato del piacere delle lacrime. Esse servono a scuotere l’animo e a farlo reagire all’illanguidimento dello spirito che è un portato della civiltà. Il teatro rappresenta, in questa concezione, l’ultimo raffinamento della cultura e si collega con la filosofia.
Pagano inscena l’innamoramento di Corradino per la figlia di Carlo d’Angiò, Geldippe, al fine di rimarcare il contrasto tra questo amore e l’odio di Carlo. Dagli illuministi riprende il tema dell’umanità: l’amore e l’umanità, secondo l’Illuminismo, sono le molle che spingono l’interesse dell’uomo e coinvolgono lo spettatore. Nella rappresentazione della passione amorosa si ispira al teatro francese, a Racine, a Metastasio e a Euripide (Ippolita), nonché alla tradizione lirica petrarchesca. Sul piano dei rapporti fra il tiranno (Carlo d’Angiò) e il re (Corradino) ha invece presente l’Alfieri, l’altro grande modello del teatro europeo. Se Caraccio aveva dato del Corradino una rappresentazione statica di martire, servendosene per discutere del tema delle passioni, Pagano “vuole cogliere attraverso la raffigurazione della passione amorosa la possibilità di dimostrare come questa possa trasformare il testo teatrale e renderlo adatto alla rappresentazione scenica”.
La filosofia civile, la dimensione fortemente etica, ha ricordato la prof.ssa Distaso, era in Pagano di derivazione illuministica, ispirata soprattutto a Genovesi e a Filangieri che era suo grande amico e lo portava a cogliere l’idea di una virtù eroica che doveva farsi propugnatrice del bene pubblico e quindi doveva essere animata anche da un entusiasmo civile.
Pagano riflette sul potere nella cornice napoletana del potere assoluto, nel 1789. E’ un momento cruciale, di rottura, un momento in cui gli intellettuali avevano minori speranze in un rapporto col potere politico. L’opera del Pagano rappresenta l’estremo tentativo di indicare a Ferdinando IV, ma anche ai monarchi europei, la divaricazione tra monarchia e potere dispotico, tra re e tiranno. Essa era una sorta di appello ai sovrani dell’epoca sulla necessità di coniugare etica e politica. “Era giunto il momento”, ha sottolineato la prof.ssa Distaso, “di fare qualcosa di vero, non più di finto, sulla scena”. Pagano, che elaborò la Costituzione napoletana del 1799, ha pagato con la morte questo suo operato civile. Vi è una circostanza che colpisce: Corradino di Svevia muore nella piazza del Carmine di Napoli il 29 ottobre 1268; Pagano muore il 29 ottobre del 1799. Non poteva essere nessun altro l’autore del Corradino, ha concluso la prof.ssa Distaso, che Francesco Mario Pagano.
“O rea fortuna, ognor senza consiglio il mondo reggi! Ben son ciechi i doni che versa la tua man. Sull’aureo soglio siede il delitto fortunato, e preme l’infelice virtù col piè superbo” (F.M. Pagano). Dal Tredicesimo secolo la figura dolce e giovane di Corradino, l’ultimo degli Svevi, icona storiografica della regalità infelice e della virtù tradita, ha esercitato una patetica influenza sull’immaginario letterario italiano, da Dante al dramma secentesco, incentrato sulla ragion di Stato e sul potere, fino ad un autore tardo-romantico quale Aleardo Aleardi. Ne ha parlato la prof.ssa Grazia Distaso, preside dal 2006 della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, ordinaria di Letteratura italiana, coordinatrice del Dottorato di ricerca in Italianistica ed esperta del rapporto fra letteratura e teatro e letteratura e musica, in un incontro tenutosi, nell’ambito del ciclo dei “mercoledì con la storia”, il 17 novembre 2010 presso la libreria Laterza.
La lezione della prof.ssa Distaso ha trattato, in modo particolare, il Corradino di Svevia del Pagano, opera teatrale settecentesca il cui testo è stato da lei curato in una recente edizione che riporta, in appendice, anche il Corradino del Chiovenda, noto giurista italiano dello scorso secolo.
L’interesse alla figura di Corradino si sviluppa infatti soprattutto nel contesto napoletano. Nella storiografia essa emerge già nelle Cronache di Villani, nella Storia del Regno di Napoli di Pandolfo Collenuccio nel Quattrocento e poi in Muratori negli Annali. Emerge dopo nella letteratura, fra la fine del Cinquecento e il Seicento, perché viene a essere figura centrale nella tragedia politica, essendo collegata al tema della regalità. La prima attestazione di un interesse per la figura di Corradino ci è offerta dall’Accademia bitontina degli Infiammati, un’accademia seicentesca che fu una vera fucina teatrale. Verso la fine del Seicento un autore salentino formatosi a Napoli, Antonio Caraccio da Nardò, pubblica a Roma una tragedia su Corradino.
Già Caraccio sottolineava come il sovrano dovesse avere il dominio delle passioni e raggiungere una sovranità in cui si affermava l’equilibrio e ci si ispirava alle leggi della ragione e della natura. Tali principi, come ha sottolineato la prof.ssa Distaso, erano ispirati alla concezione classica, per esempio alla clemenza di cui aveva parlato Seneca nel trattato “De clementia”, nonché ad autori dell’Umanesimo meridionale come il Contano. Secondo Caraccio la maestà dei re sta nel rispetto dei popoli: “La maestà senza rispetto è un nome senza sostanza e senza corpo un’ombra”.
Napoli è la città di Vico, in cui si afferma una filosofia della storia incentrata sui cicli di civiltà che erano scanditi da catastrofi naturali immani che creavano una rivoluzione, conducendo ad un nuovo ciclo di civiltà. E’ anche la città del grande Genovesi, di Filangieri, di Taviani, gli illuministi che si occupavano di letteratura, di diritto, di economia civile e politica. Essa, come ha rimarcato la prof.ssa Distaso, riesce a “coordinare, attraverso il riferimento a questi autori europei, una serie di movimenti politici e ideologici”.
Pagano è uno degli allievi prediletti di Antonio Genovesi. Sceglie il Corradino perché simbolo della sventura che insidia il potere. Egli riteneva, infatti, che la poesia dovesse essere portatrice di passioni forti, vive, perché nella realtà non c’era più la possibilità di azioni vere. A livello di ideologia Pagano era sensista e, secondo lui, le passioni sono un antidoto alla noia. L’Illuminismo, e proprio Voltaire, aveva parlato del piacere delle lacrime. Esse servono a scuotere l’animo e a farlo reagire all’illanguidimento dello spirito che è un portato della civiltà. Il teatro rappresenta, in questa concezione, l’ultimo raffinamento della cultura e si collega con la filosofia.
Pagano inscena l’innamoramento di Corradino per la figlia di Carlo d’Angiò, Geldippe, al fine di rimarcare il contrasto tra questo amore e l’odio di Carlo. Dagli illuministi riprende il tema dell’umanità: l’amore e l’umanità, secondo l’Illuminismo, sono le molle che spingono l’interesse dell’uomo e coinvolgono lo spettatore. Nella rappresentazione della passione amorosa si ispira al teatro francese, a Racine, a Metastasio e a Euripide (Ippolita), nonché alla tradizione lirica petrarchesca. Sul piano dei rapporti fra il tiranno (Carlo d’Angiò) e il re (Corradino) ha invece presente l’Alfieri, l’altro grande modello del teatro europeo. Se Caraccio aveva dato del Corradino una rappresentazione statica di martire, servendosene per discutere del tema delle passioni, Pagano “vuole cogliere attraverso la raffigurazione della passione amorosa la possibilità di dimostrare come questa possa trasformare il testo teatrale e renderlo adatto alla rappresentazione scenica”.
La filosofia civile, la dimensione fortemente etica, ha ricordato la prof.ssa Distaso, era in Pagano di derivazione illuministica, ispirata soprattutto a Genovesi e a Filangieri che era suo grande amico e lo portava a cogliere l’idea di una virtù eroica che doveva farsi propugnatrice del bene pubblico e quindi doveva essere animata anche da un entusiasmo civile.
Pagano riflette sul potere nella cornice napoletana del potere assoluto, nel 1789. E’ un momento cruciale, di rottura, un momento in cui gli intellettuali avevano minori speranze in un rapporto col potere politico. L’opera del Pagano rappresenta l’estremo tentativo di indicare a Ferdinando IV, ma anche ai monarchi europei, la divaricazione tra monarchia e potere dispotico, tra re e tiranno. Essa era una sorta di appello ai sovrani dell’epoca sulla necessità di coniugare etica e politica. “Era giunto il momento”, ha sottolineato la prof.ssa Distaso, “di fare qualcosa di vero, non più di finto, sulla scena”. Pagano, che elaborò la Costituzione napoletana del 1799, ha pagato con la morte questo suo operato civile. Vi è una circostanza che colpisce: Corradino di Svevia muore nella piazza del Carmine di Napoli il 29 ottobre 1268; Pagano muore il 29 ottobre del 1799. Non poteva essere nessun altro l’autore del Corradino, ha concluso la prof.ssa Distaso, che Francesco Mario Pagano.
