“Guerriere”? E’ vero, non è un Paese per donne

di Francesco Greco - Guerriere? Mavà! E come dovremmo chiamare allora le nostre madri che hanno svezzato sette figli senza redditi fissi? E le nonne partigiane staffette sulle montagne, le ave brigantesse armate di archibugi contro 100mila soldati piemontesi? Per tacere delle donne sopravvissute ai lager, alla Elisa Springer. Nel cuore della cultura maschilista, del patriarcato più violento? Eroine omeriche? Cechoviane? Amazzoni?

   L’enfasi tuttavia è solo nel titolo, perché poi questo bel saggio lieve e ironico svela un universo femminile complesso, che vive nel disagio esistenziale, alla giornata, stressato, piede sull’acceleratore, minuti contati, quasi l’impossibilità di vedersi come persone. E’ la “civiltà” che ci siamo dati, e il conto più salato lo pagano le donne. Così portare il pupo a scuola e stargli dietro con i compiti è una fatica di Sisifo, un gesto affollato semanticamente: più cerebrale della Rivoluzione d’Ottobre. Pensare al secondo figlio più destrutturante della presa della Bastiglia e le barricate parigine.

   Elisabetta Ambrosi ha ragione in questo “Guerriere” (La resistenza delle nuove mamme italiane), Chiarelettere, Milano 2014, pp. 288, € 14.00, ebook 9.99, pregnante prefazione di Lia Celi (“partorire un figlio è sempre l’inizio di una guerra”). Le cose stanno come le raccontano le donne che incontra ogni giorno. Ironia della Storia: un magro destino tocca alle figlie delle madri che fecero il ’68 (“Io sono mia”), come se una sequela di conquiste fosse stato nel frattempo prosciugato, formattato senza che alcuno se ne fosse accorto e si fosse tornati, come al gioco dell’oca, alla prima casella.

   Sono ragazze quasi sempre primipare, che galleggiano nei meandri della Storia, nelle viscere oscure delle nostre squinternate metropoli (ma in provincia la cose non cambiano molto), dove prendere un autobus è faticoso e trovare un parcheggio un miracolo. “Mamme aggrovigliate”, senza saperlo né volerlo alla deriva nella modernità, vivono sospese fra la carriera e la casa, finendo col sentirsi inadeguate su entrambi i fronti: i sensi tesi stancano, il tempo non basta mai e l’energia non è quella delle generazioni precedenti (appunto, quella delle madri contadine, le partigiane, le brigantesse, le operaie del dopoguerra che ne avevano di più anche per un fatto di dna).
   Così queste ragazze affollano semanticamente gesti quotidiani semplicissimi. Cercano di dare il massimo sul lavoro, spesso se lo inventano senza chiedere nulla al mondo. E’ la triste sorte della piccola borghesia metropolitana ma quella delle donne di provincia non è migliore e tutte sono strette fra precariato e sfruttamento, cococo e altre nefandezze (il femminicidio diffuso, le molestie, i ricatti) inventati da una politica ormai destrutturata di valori, che germoglia le sue stesse aberrazioni all’infinito.

   Che questa non sia una società per donne è un assioma, ma non lo è nemmeno per i vecchi, abbandonati a se stessi, per i bambini, violati, i meno abbienti, gli esodati, gli incapienti, i superprecari, chi perde il lavoro a 50 anni, ecc. Qui il bel saggio avrebbe potuto cambiare modulazione e fare uno scarto politico, classista. La cronaca quotidiana lo giustifica (e non è solo un fatto italiano, in Grecia è uguale): scioperi, occupazioni, terre di fuochi, clima da guerra civile, ecc. lo avrebbe motivato ideologicamente.

   Magari mettendo sullo sfondo il berlusconismo della donna usata da utilizzatori finali, umiliata, offesa, stuprata. E che questo humus terrificante ha creato e usa a suo piacimento per esistere. La Ambrosi invece se ne trattiene restando sul sociologico e raccontando storie di donne che si scannano per sopravvivere, dando al saggio un atout iperrealista. Lascia capire che il welfare è stato disidratato (“la crisi morde, il welfare si sgretola”) e i diritti sanciti da mille “carte”, le conquiste di lotte durissime, secolari, ridotti ad affermazioni di principio. Fra poco si metterà in discussione anche il suffragio universale.

   Mentre i politici fanno passerelle illustrando realtà virtuali, sparse dai media addomesticati e dalla tv-spazzatura. Le donne del post-femminismo, nel post-moderno dei pixel e della realtà virale sono le più esposte, le meno protette. Ma non è una paranoia di genere, è collettiva. Il saggio pare riproporre temi che parevano ormai assimilati, diritti trasfigurati in “cultura” oltre che in apparato normativo. Invece, ci dice la giornalista romana, siamo all’anno zero, anzi, alla preistoria.

   Questa società straccia impunemente l’icona della donna portatrice di virtù e valori positivi. L’emancipazione è ormai un termine privo di senso, la piramide sociale è cristallizzata, l’ascensore che portava una ragazza dotata intellettualmente ad affermarsi è rotto. Oggi anche Camilla Cederna e la Fallaci non avrebbero la fiducia di nessuno e l’ambizione delle ragazze è il letto del potente o mettersi un tailleur e leggere l’Ansa al tg in un Paese dove esce un unico grande giornale sostenuto dallo Stato (tolta qualche testata di nicchia che fa i salti mortali per vivere).

   Una casta braminica, quella dei politici, con arroganza vuole la collettività – e la donna per prima - al suo servizio, quarto stato, servi della gleba. Ha preso corpo questa idea reazionaria, razzista e la generazione della Ambrosi si sbatte per esistere. Non è una società per donne ma non lo è nemmeno per l’operaia della Fiat, la precaria del call center, la lavoratrice stagionale nei campi, la commessa a 400 €.
  Insomma, siamo nel Mesolitico. Fanno perciò tenerezza queste “guerriere” piccolo borghesi divise tra pannolini e pc, che svezzano bambini stressati più di loro a cui non hanno manco il tempo di lavare le orecchie: forse gli infelici di domani. Eppure in fondo al tunnel una luce si intravede nella loro forza sottintesa. In fondo Cleopatra, Artemisia Gentileschi, Rosa Luxenburg, Marie Curie e via via fino ai giorni nostri, la Hack, la Levi-Montalcini, Madre Teresa non è che avessero il vento a favore, ma sono state più forti. Come la Fallaci, la Cutuli, la Amanpour, la Thatcher, la Merkel: ce l’han fatta a prescindere (“lo status bisogna darselo da soli”).

   Anche se l’andazzo della società che ci siamo dati, la disorganizzazione strutturale, la burocrazia micidiale, si intreccia con un razzismo sottinteso che svuota le conquiste di secoli e riassegna alla donna il ruolo di preda. E’ grave che l’Occidente, con i Lumi nel suo codice genetico, oggi, sul tema delle donne, si può assimilare all’Afghanistan, l’Iran, la Nigeria, ecc. E’ gravissimo che un plateau di valori sia stato filologicamente svuotato, restano carta, lettera morta. E’ delirante che la società rinunci alla ricchezza dell’essere donna in un mondo preda dei suoi istinti peggiori. La Ambrosi a questo punto potrebbe scrivere il seguito per dirci “che fare?” per uscire da questo stagno dove, con e le donne, rischia di affondare il sistema-Paese.