Don Tonino, bagliori di luce da “La terra dei miei sogni”
di Francesco Greco - In tanti lo pensano, a ogni suo scritto che vede la luce, ed è una sensazione dolcissima: don Tonino è come una miniera immensa, un pozzo senza fondo. Più si scava, più si scopre, più si resta senza parole. Sotto l’aspetto semantico, la ricchezza e la bellezza dei suoi messaggi in bottiglia è nella vastità degli input, ma anche nell’inutilità di un’esegesi: le allegorie, le metafore, le perifrasi, gli ossimori, le parabole sono del tutto evidenti, splendenti, luminose di un’abbagliante nitore: in una parola, nude.Forse è merito della sua nascita, origini umili, contadine, essenzialità della vita, i gesti, le parole. Che si trasfigura e si sovrappone in quella della sua terra, la Puglia (o le Puglie a dire delle sue infinite interfacce), dove nacque nel 1935 (Alessano) e spirò nel 1993 (Molfetta): “Un sacerdote non muore mai vecchio”. Terra ricca di una luce verticale, brutale, capace di svelare uomini, cose, stati d’animo, interiorità, vissuti, quotidianità, affollamenti filologici. Dove tutto è trasparente, nascondere e nascondersi è impossibile. Soprattutto il logos, e la prosa di Monsignor Bello - vescovo per circa 20 anni della prestigiosa Diocesi pugliese di Molfetta (con Terlizzi, Ruvo di Puglia e Giovinazzo) – lo conferma senza se e senza ma.
“Parlava come ispirato, in trance…”, suggerì a mò di password ai suoi funerali Monsignor Michele Mincuzzi, arcivescovo metropolita di Lecce. Come i grandi mistici e dottori della Chiesa Universale: da Santa Teresa di Lisieux a San Giovanni della Croce. Parole che riemergono come un iceberg dalla memoria aprendo “La terra dei miei sogni” (Bagliori di luce dagli scritti ugentini), a cura di Vito Angiuli e Renato Brucoli, Edinsieme, Terlizzi 2014, pp. 684, € 25,00. La prima sensazione è che il pensiero del presidente nazionale di Pax Christi sia ancora in progress, intonso o quasi; che ancora molte parole, immagini, evocazioni, illuminazioni giacciano in fondo a questo scrigno immaginario. Il tempo le rende anzi più pregne di significati significanti, ne rafforza la forza dirompente su equilibri cristallizzati, le riempie di un humus capace di fertilizzare terre e cuori, illuminare menti e percorsi, vivificare visioni, corroborare percezioni e speranze, ridare attualità e dignità alle utopie e ai folli che, nonostante tutto, ancora le coltivano.
Da questo zibaldone destrutturante, che definiremmo giovanile per freschezza e agilità di elaborazione – anche se non c’è alcun prima nè alcun dopo nel pensiero del vescovo “costruttore di pace”, anzi, il tratto dominante è la continuità filologica e progettuale del suo fluire – emerge con forza la potenza di un pensiero sempre attuale, non relativizzabile:come se avesse scagliato nel tempo futuro gli archetipi interni delle sue “visioni”, ipotizzando il ruolo di una Chiesa - in cui si intravede quella di Francesco, che sarebbe venuta 20 anni dopo – protagonista dei grandi sconvolgimenti epocali, con il “grembiule”, ma anche col pastorale (il suo fu d’ulivo, in quel dolce 30 ottobre 1982 sul sagrato della chiesa di San Domenico, a Tricase, piazza stracolma) e perché no, anche con la ramazza, per depurare le scorie.
A dirla per intero, il pensiero di don Bello, “uomo delle beatitudini”, “avviato alla santità” (processo iniziato nel 2007, nel 2013 conclusa la fase diocesana), somma i format della Teologia della Liberazione (Monsignor Romero sta per salire agli onori degli altari) all’urgenza di una neo-evangelizzazione aggiornata al Terzo Millennio, l’epoca di Facebook ma anche di una insidiosa secolarizzazione che tramuta i mezzi in fini, che ammanta le cose d’un fideismo posticcio, possedute e vissute come nuove divinità. E’ un pensiero - quello che emerge da questo volume di “diari, omelie, relazioni, articoli, cronache, schemi di lavoro” - ordinario, quotidiano, essenziale, senza grandi lirismi né voli pindarici, ma che già fa baluginare un archetipo che in seguito si sublimerà nell’etica del volto. La Chiesa che torna alle origini, alla catarsi, al “sudario senza tasche” (Francesco), al pastore che ha “addosso l’odore delle sue pecore” (ancora Francesco).
“Sine glossa”, parla agli umili e agli ultimi, ma anche ai cuori dei potenti, dei politici, di chi ha in mano i destini dei popoli, dei decisori. Svela loro la realtà, turba coscienze, scompiglia equilibri, disidrata lo status quo, suggerisce ipotesi alternative. Si coglie già in questi primi scritti - che risalgono al periodo in cui fu ordinato sacerdote, nel 1957, poi parroco a Tricase, docente nelle scuole, quindi al seminario di Ugento – la lettura del Vangelo contaminata, intrecciata a quella del reale, la portata essenzialmente “politica” del suo pensiero. Quella che poi dispiegherà pienamente - da vescovo capace di usare i media senza le astuzie dei maghi del marketing, anche politico - negli anni Novanta del pericolo nucleare, i granai svuotati per riempire gli arsenali, il capitalismo che si ristruttura sulla pelle dei popoli, affamandoli, le guerre sotto casa (Bosnia), le rapine dell’Occidente in Africa e quant’altro. Desidereremmo… guardare proprio nella direzione indicata dal suo dito puntando all’orizzonte più lontano. Ci piacerebbe riconoscere i sogni che egli coltivava… Il sogno è il nutrimento dell’anima, come il cibo lo è per il corpo“, afferma Monsignor Vito Angiuli, vescovo della Diocesi Ugento-S. Maria di Leuca a mò di prefazione. Cogliendo il nucleo più intimo del suo pensiero, l’anelito del profeta che, parola di Dio alla mano, immagina “un mondo veramente nuovo” (Brucoli), “appena intravisto per visitarlo e potervi dimorare” (Angiuli).