Montanelli “straniero” in un Paese dove si guarda all'indietro

di Francesco Greco - Quella volta che, inviato dal “Corriere” in Germania a seguire gli sviluppi di quella che era annunciata dalla propaganda come “guerra lampo” (Hitler aveva invaso la Polonia), durante una sfilata, il dittatore “scorge, sul ciglio della strada, l'allampanato giovane in borghese”. Fa fermare l'auto, torna indietro, scende, gli si piazza davanti e si mette a “sbraitare in un incomprensibile tedesco”. Poi, dopo il saluto nazista, risale e se ne va.

O quell'altra, quando, da redattore de “L'Universale”, Mussolini lo convoca a Palazzo Venezia (Sala del Mappamondo) per complimentarsi col giovane cronista dopo aver letto un suo articolo contro le leggi razziali: “Il razzismo è roba da biondi!”, ridacchia il Duce. Poi cambierà idea allineandosi al delirio antisemita dei “biondi”.

Realpolitik. Non tutti sanno che nel 1991 rifiutò il laticlavio propostogli da Cossiga: lo confidò durante una riunione di redazione. E non poteva essere altrimenti: voleva restare “soltanto un giornalista” controcorrente: “Sono nato out”.

Montanelli desnudo. Quotidiano, domestico, intimo, e quindi quello vero delle infinite facce che, con una punta di narcisismo, offriva di sé. “Fotografato” da Giancarlo Mazzuca, uno dei suoi “boys” (oggi dirige il “Giorno”): entrò al “Giornale” nel 1990 e poi lo seguì alla “Voce”, l'avventura durata un anno che doveva intercettare il lettorato di destra in fuga dal “Giornale” normalizzato da Berlusconi, ma fu percepito come riferimento di un'élite e naufragò (anche a causa del web, dei lettori giovani in fuga, della pubblicità ramazzata dalla tv-spazzatura, del raddoppio aumento del costo della carta, della distorsione del mercato da parte delle grandi testate, ecc.) anche se diffondeva 60mila copie, che non eran poche.

E dunque, ecco scorrere dinanzi agli occhi un Montanelli umano, troppo umano, colto negli aneddoti proposti in “Indro Montanelli – Uno straniero in patria” appena uscito per Cairo Editore, Milano 2015, pp. 159, euro 14, collana “Saggi”, con la sapida prefazione di Roberto Gervaso, che di suo riuscì, appena 18enne, a fare colazione a casa del Maestro: il premio del padre per la maturità classica (Montanelli chiamava “cipria” i suoi pezzi).

Il “vate di Fucecchio” ne esce in tutta la sua barocca complessità e unicità, cosciente sin dall'esordio da inviato di guerra di essere un personaggio oltre che un cronista (che peraltro non amava gli scoop), con la cronica inappetenza e l'agnosticismo (si definiva “laico impenitente” e anticlericale), anche se “non ha mai cancellato dalla mente il grande mistero della Fede” osserva acutamente Mazzuca.

Ma il “principe” (del giornalismo, “l'amore più grande”, ma anche “sospettato” di sangue blu per vie traverse che il lettore troverà da solo) si commuove quando incontra sotto i portici di Bologna padre Marella, suo prof. di Filosofia al liceo di Rieti (dove il padre Sestilio era preside), che nel frattempo ha preso i voti e chiede l'elemosina, e poi va a cena con Mons. Tonini, arcivescovo di Ravenna e infine con Giovanni Paolo II: il Direttore è emozionato dalla preghiera alla Madonna del Pontefice polacco per la madre, Maddalena, che sapeva “molto devota”.

Alcuni aneddoti hanno diverse password e versioni (e anche questo è un atout del libro): forse Montanelli ha un figlio in Estonia (bello il capitolo sugli amici del Nord), forse un altro in Irlanda. Forse è stato l'amante di Maria Josè, moglie di Umberto re di maggio, che era “ostile a Mussolini e ai tedeschi” e di Martha Gellhorn, la terza moglie di Hemingway a Madrid sotto le bombe franchiste. Stimava profondamente la moglie Colette Rosselli, un'aristocratica, che Fellini chiamava “Colettona” e voleva far recitare nella “Dolce vita” e l'ultima compagna Marisa Rivolta, ma “nella vita si ama una volta sola” si illanguidisce (è Maggie l'irlandese rimasta incinta). Forse egli stesso ha depistato il suo pubblico e i suoi ragazzi offrendo i suoi ricordi polisemici.

Non così per i personaggi della Storia che incontrò, da Berlusconi, che fece irruzione al “Giornale” (“Montanelli non avrebbe accettato di diventare una sorta di lacchè al servizio di un leader politico”) per invitare la redazione alla crociata contro la sinistra, usando “la clava”, ad Agnelli (suo ospite, trascorse una notte a Villar Perosa morendo quasi di freddo, “vatti a fidare dei ricchi...”, brontola il Direttore), passando per Cuccia scettico sull'avventura della “Voce” (“l'ipotesi della public company”), ed ebbe ragione.

Possiamo dire che “Cilindro” (così lo chiama affettuosamente Mazzuca) incarna il Novecento, il “secolo breve” e aspro, avendolo attraversato tutto (era nato il 22 aprile 1909, se n'andò il 22 luglio 2001, “aveva un grande terrore della vecchiaia e della morte”, “Straniero in patria e straniero nel nuovo millennio”).

Un secolo di umori, amori, illusioni, utopie, dolcezze, passioni, speranze che si dissolse con lui. Scherzò sulle Br (“attentato a un giornalista“ scrissero i radical-chic del “Corriere”) che nel 1977 gli spararono: “Sono stati bravi, mi hanno sparato quattro colpi senza uccidermi o azzopparmi, e non è facile...” e sulla morte: “Ho paura di morire ma non ho paura della morte”, anche se si dichiara curioso “su cosa c'è dopo”.

“Fan di Guicciardini e Machiavelli”, fu il cantore di un giornalismo romantico, diremmo etico, cosciente di avere una mission, che viveva con assoluta trasparenza e coerenza, un rigore da clausura, considerando i lettori i suoi veri editori (“Mi mancheranno terribilmente”) si commosse quando si spense la “Voce”.

Ispirò e costruì (commuovente l'entusiasmo di un ottuagenario che si rimette in gioco per la “Voce”, “Se non ci fossi io come correttore di bozze...”, “Ora do il Sidol” diceva correggendo i pezzi altrui) quei giornali che ti sporcano le dita d'inchiostro e che oggi, al tempo dei social e del whatsapp, non ci sono più.

Non tanto per la concorrenza del web o della tv, ch'è poca cosa in qualità dei testi e delle analisi sventolate, e comunque sono alla fin fine surrogati che però dopano il mercato, ma per la sua trasmutazione genetica: il giornalismo di oggi è verboso, sociologico, capace di nascondere le notizie: uno spettacolo desolante che intristirebbe il Maestro. Una notizia, talvolta fasulla, soffocata da una dozzina di opinioni. Sullo sfondo di un'onestà intellettuale sempre difficile da trovare anche se si provasse con la lanterna di Diogene.

Un'involuzione che “Cilindro”, per sua fortuna ha conosciuto di sguincio, anche se si dichiarò, con la schiettezza del toscanaccio, “stanco di grufolare nel pantano cui è ridotta la vita pubblica italiana, dove non si può muovere un passo senza imbrattarsi di fango”. Fango che dal 2001 a oggi è aumentato in termini esponenziali. E, fosse ancora fra noi, oggi basterebbe un “Controcorrente” per svelarcelo in tutta la sua didascalica volgarità.