“Roma città aperta” nei ricordi di Marcello

di Francesco Greco - Aveva dieci anni quando Rossellini lo vide all'angolo fra via del Tritone e via Crispi dove faceva lo sciuscià. La mattina andava a piedi da Largo Preneste sin lì, con la cassettina del lucido, spazzola e anilina, e c'è un bel pò di strada. Lo portò a casa della contessa Chiara Politi (finanziatrice pentita del film) con la scusa di fargli lucidare 40 paia di scarpe (“D'improvviso mi sono sentito un imprenditore!”). “Eccolo!”, disse e gli mise in mano un contratto, che portò alla madre.

Il bambino di “Roma città aperta” (103 minuti di pura poesia ma anche di innovazione che poi il maestro svilupperà anche nel Centro Sperimentale di Cinematografia, “utopia multimediale”), Marcello, “nasce” così. E' la storia vera di Teresa Gullace e don Giuseppe Morosini nella città “liberata” e lacerata nell'anima, impaurita dalle retate nazifasciste, la ferocia (Fosse Ardeatine, Forte Bravetta, ecc.), dove alberga la fame, la borsa nera e la morte è in agguato.

Vito Annicchiarico è nato a Grottaglie (Taranto) il 24 febbraio 1934 e la sua famiglia era salita a Roma in cerca di fortuna. Ha un fratello più grande (1930) e una sorellina mandata dalle suore a Udine, la città della madre. Il padre è “disperso” in Etiopia (tornerà nella Roma distrutta), lui aiuta in casa lucidando le scarpe, 20 lire a paio. Le riprese cominciarono a gennaio 1945. Recitò con i suoi abiti. Con due star: Anna Magnani (sora Pina) lo trattò come un figlio e voleva adottarlo, ma la madre si oppose. E Aldo Fabrizi (don Pietro, la tonaca fu affittata, chiese un milione, ottenne 400mila lire). Fra i due furono scintille per tutto il tempo della tormentata lavorazione: quando dovevano girare insieme spariva. “Ma non lo vedi che è solo un ragazzino!”, lo difendeva materna la futura “Mamma Roma”. Col regista Roberto Rossellini invece entrò subito in empatia, lo definisce “un pezzo di pane”. Con la troupe “non aveva rapporti professionali ma rapporti d'amore”. Era soprannominato “il pitone”.

Il capolavoro del Neorealismo (la trilogia sarà poi composta da “Paisà” e “Germania anno zero”) uscì il 24 settembre 1945 al “Quirino”. Fischi. Applausi a Parigi e New York. Moravia lo stroncò in modo elusivo, elegante, intellettuale. A Montanelli invece piacque: ne percepì tutta la carica umana, innovativa, provocatoria (parlava pure di droga e omosessualità), la possente energia escatologica. Oggi Vito dice: “E' un film che non mi stanco mai di guardare... mi commuove sempre... un trattato della memoria... Un film della paura... Rossellini voleva che questo sentimento si sentisse”. Nannarella invece soffriva a rivederlo: il figlio Luca si ammalò mentre lo girava.
Vito ha aperto il baule dei ricordi con Simonetta Ramogida, fotografa e giornalista di pregio, militante del bianco e nero, in “Roma città aperta” (A 70 anni dall'uscita del film Vito Annicchiarico il piccolo Marcello racconta il set con Anna Magnani (“tenera, materna, affettuosa”), Aldo Fabrizi e Roberto Rossellini), Gangemi Editore, Roma 2016, pp. 176, euro 20 (tenera prefazione di Laura Delli Colli). Ramogida attinge a una vasta bibliografia l'archivio di Vito, materiali inediti. Il lavoro è durato 5 anni, il flusso di memoria era stop and go.

Parla di cinema con la “c” maiuscola, ma si trasfigura in un pregnante documento storico, di costume, poesia, politica: un'idea di Novecento, dell'uomo, di Italia povera ma bella e ricca di passione, forza, innocenza, dallo sguardo pulito, oggi sbiadita e informe, cinica e corrotta. Irriconoscibile.

Ricordi minuziosi dell'attore (recitò anche con Vittorio De Sica, Soldati e in teatro con Aroldo Tieri: forse ispirò ad Amadei e Zavattini “Sciuscià”, girato l'anno dopo) che poi fece altro, mise su famiglia, allevò i figli. Non voleva essere schiavo dell'attesa e poi non voleva essere schiavo dell'attesa e si vergognava quando per strada lo chiamavano “Marcè”. Un apparato fotografico di grande impatto emotivo, che in certi snodi lascia senza parole.

Autorevole ph, Ramogida restituisce alla pagina frammenti divenuti cult e come tali letti dai grandi registi Usa, che li hanno studiati e professano affettuosa riconoscenza ai nostri grandi registi di quel momento (anche se Massimo Teodori dice che hanno attinto al cinema Usa del New Deal). Gli immortali che siedono nell'iperurano e che ormai incarnano la storia del cinema. La cui memoria tengono viva: noi li abbiamo rimossi, o quasi. La tv (ricordate “Ginger e Fred”?) non trasmette i capolavori (o a notte alta), i palinsesti tracimano di monnezza, e non per caso: siamo in mano ai “legionari dell'estetica” (Fellini). Tanto che se chiedi a un ragazzo chi è Rossellini (o De Sica, Flaiano, Fellini, Pasolini, ecc.) risponde “boh!”.

Ramogida allinea i frame di quel cinema, e quel mondo, con la perizia dell'entomologa e la passione di chi sa che quel materiale è storia, immaginario collettivo, mito, posterità. Ci riporta al Pigneto, via Montecuccoli 17 e 36, il quartiere popolare dove “Roma città aperta” (sceneggiato anche da Sergio Amidei e Fellini, prodotto da Aldo Venturini e poi Peppino Amato, mentre Rossellini vendette anche la catenina al collo e la contessa sparì) fu girato dove Vito-Marcello abitava: all'epoca confinava con una campagna brulla, metafisica come la marrana, pulsante di vita d'istinto, “primitiva”, pasoliniana (infatti PPP girò “Accattone”), ma non degradata dentro, alla brutti, sporchi e cattivi.

Per un curioso gioco del destino, chi scrive una sera di movida al Pigneto entrò nella macchina del tempo e fu portato da amanti del cinema proprio in quella via dove la Magnani e Fabrizi (attori comici prestati al dramma) caddero fulminati dai tedeschi e si fermò al civico 36. Assaporando una dolce serendipity di leggenda, fiaba, magia, quando la vita era cinema e il cinema vita ed era impossibile separarli tanto erano intrecciati e privi di confini ontologici, semantici.

Con gli aneddoti del set e dintorni, ben strutturati come sociologia e antropologia, Vito ci fa entrare in una dimensione del tempo di cui non siamo stati testimoni ma di cui pure siamo impastati e che compone il puzzle del nostro dna, la memoria, l'identità più mediterranea che europea, le radici, ma che si è dissolta, pure per colpa nostra. Anche per questo è un libro da tramandare ai posteri: l'Italia e tutti noi siamo stati ingenui come Marcello, umani come don Pietro e Pina e audaci e moderni e rivoluzionari come Rossellini (con la sua “cassetta degli attrezzi”). Scordarlo sarebbe un suicidio.