Così si dice a Leverano: le radici dei padri

di FRANCESCO GRECO - LEVERANO (Le) – Se chiedete alla generazione 2.0 dello smartphone cosa significa “caddricu” probabilmente riceverete un sorrisino o un'alzata di spalle. Il ragazzino che smanetta con lo smartphone ignora il significato del termine “biatillu”: nella società liquida è considerato inutile per la sua formazione culturale.

E' il segno che l'esproprio culturale da parte della scuola di massa e dei media ha portato i suoi perfidi frutti. Perché dal dialetto passa l'identità di un popolo, la percezione delle sue radici, del passato, la trasmissione del dna della memoria, essendo esso la prima lingua che impariamo: la succhiamo col latte materno.

Scuola di massa dunque ha significato esproprio dell'identità di massa, per omologarci a format culturali lontani, estranei, se non ostili. Ci fu un tempo in cui a scuola era proibito parlare il dialetto, le maestre davano bacchettate sulle mani: occorreva insegnare al popolo e parlare la lingua dei vincitori, delle classi dominanti.

Le specificità culturali e territoriali sono state così quasi tutte formattate, dimenticando che alcuni dialetti sono considerati lingue vere e proprie, hanno la dignità di lingua: il romanesco del Belli e Trilussa, il napoletano di Eduardo e Totò, il veneto di Goldoni, il barese di Alessandro Piva e Uccio De Santis, il siciliano, ecc. D'altronde, il popolo non ha mai avuto dubbi, sono stati i burocrati addetti ai programmi scolastici a considerarle “minori”.

Ma se il poeta d'origine friulana Pier Paolo Pasolini nel 1951 (a 29 anni) scrisse “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”, era il segno che percepiva il pericolo di una deriva identitaria, culturale, politica di intere generazioni: una sopraffazione del potere sul popolo per dominarlo meglio.

Pur bacchettati sulle mani, in questi lustri tutti noi abbiamo continuato a usare il dialetto in casa, in famiglia, in piazza, ovunque, opponendoci all'assimilazione culturale e identitaria, all'effetto-marmellata, rifiutando l'allineamento a topoi culturali sentiti e vissuti come estranei. Così siamo riusciti a conservare un minimo di identità e di autostima.

Lo abbiamo potuto fare grazie anche al lavoro oscuro di studiosi locali che nella solitudine delle loro stanzette hanno lavorato animati solo dall'amore per la loro terra, la loro gente, il campanile, recuperando lacerti di memoria per sottrarli all'oblio come destino inevitabile. Oggi siamo loro grati per questi sacrifici e ne godiamo i frutti. Possiamo dire che ce n'è uno in ogni paese (da Gino Meuli di Salve a Ortensio Seclì di Parabita per citarne solo due).

Per cui siamo riconoscenti alle figlie di Mario Caputo (Marilisa, Arianna e Giovanna e la vedova Silvana Calò), studioso di Leverano (Lecce, zona Negroamaro e fiori esportati nel mondo), purtroppo mancato nel giugno scorso a 80 anni (era del 1935) per averci donato il “Dizionario italiano-leveranese” (Le radici dei nostri padri), Edizioni Esperidi, Monteroni (Le) 2015, pp. 192, s.i.p., uno specchio in cui riflettere quel che siamo stati, modulando quel che siamo e soprattutto saremo.

Geometra, per trenta anni dirigente dell'ufficio tecnico comunale, Caputo è stato un uomo attratto dalla cultura popolare e le sue infinite facce. Già nel 2005 pubblicò “Arannu, arannu. Per non dimenticare il nostro dialetto” in cui assemblò molto materiale preso dall'affabulazione della gente del suo microcosmo: proverbi, modi di dire, tiritere, sonetti, racconti, preghiere.

In questo pregevole lavoro, lo studioso pugliese ha voluto offrirci - in un ricco corredo iconografico - anche le foto di arnesi che oggi non si usano più, ma che racchiudono un tempo, un'epoca, hanno catturato l'anima di chi li usò: sono perciò semanticamente affollati. Lavori fatti con tanta serietà e passione dovrebbero essere adottati dalle scuole, per rafforzare l'identità delle nuove generazioni, sempre più debole sotto il martellamento mediatico di mezzi che vorrebbero imporci come fini per spingerci in una plaga di ispido nichilismo, afasia dei sentimenti, aridità del cuore, gelida solitudine.