Tolstoj vegetariano, perché crede nell'uomo
di FRANCESCO GRECO — A 19 anni si pose una domanda cool: “Qual è il fine della vita dell'uomo?” (17 aprile 1847, dai “Diari”). In nuce già si leggeva “il divino e l'amore pantico”. Ecco uno scrittore-filosofo da recuperare, ristampare, adottare nelle scuole. Un grande, attuale oggi più che mai. Non tanto per la “conversione” vegetariana negli ultimi 23 anni della sua lunga vita (1828-1910), tanto da essere letto come un'icona dell'omonimo movimento, quanto perché, parallelamente, il pensiero di Lev Tolstoj al suo nucleo più profondo, intimo, elabora un'idea originale di mondo, uomo, universo in armonia con la natura, in empatia con tutte le creature viventi e di riflesso pacifista, oltre ogni credo religioso, perché “tutto ciò che vive aborre il dolore, tutto ciò che vive aborre la morte”.
“Perché sono vegetariano” (Finché esisteranno macelli, esisteranno sempre dei campi di battaglia), Piano B Edizioni, Prato 2016, pp. 192, euro 12, traduzione e cura di Martina Grassi (collana “Elementi”) è il “manifesto” dell'uomo riconciliato con i suoi istinti peggiori, la causa del male, il dolore, l'infelicità. A far riflettere, provocare un senso di smarrimento, di vuoto, un crampo allo stomaco, basterebbe il racconto del 1909 (inedito per l'Italia) “Sangue”, di Michail P. Arcybašev (1878-1926): sublime nella sua scansione ontologica, lirico nel far cogliere al lettore tutta l'energia possente della natura, vibrare l'emozione della vita che si muove nell'animale (primo l'uomo), la nausea per il male e la violenza che abbrutiscono. Infatti lo proponeva “per convertire la gente al vegetarismo”.
Lo scrittore di “Guerra e pace” è anche maestro di vita e oggi sarebbe profondamente annoiato dalle mode che ci soffocano come gramigna tenace, da tutto il ciarpame filosofico con cui si vuole addensare il cibo, tra cucina molecolare, masterchef e la tv ridotta a volgare cucina dove avvengono contaminazioni stomachevoli: pensava infatti che occorre “mangiare per vivere, non vivere per mangiare”. Massima che formatta ogni filosofia applicata al cibo, evidentemente posticcia.
Teorico della sacralità dell'uomo, della sua unicità (“resta pur sempre espressione di un principio eterno”) e della vita ispirata a un'idea di fratellanza (“più compassione riempie il cuore dell'uomo, e meglio è per la sua anima”; “più compassione proviamo per gli animali e meglio sarà per la nostra anima”; “è necessario trattare gli animali allo stesso modo in cui desiderano essere trattate le persone”), considerava il vegetarismo il primo passo verso un'ascesi spirituale, oggi che lo spirito è svaporato, esiste solo la vil materia, il corpo è santificato, il consumo di emozioni seriali e di rubbish, la soddisfazione di bisogni indotti creati dalla pubblicità e dai trend che omologano ogni diversità: voragine in cui l'uomo s'è smarrito e da cui non riesce a sortire.
Tolstoj non è il primo nella Storia a incamminarsi su questa via, egli stesso trova un suo illustre predecessore: Socrate: “Sosteneva – dice il grande narratore – che l'eccesso di cibo e bevande è dannoso non solo per il corpo ma anche per l'anima”. Consigliava ai suoi discepoli di alzarsi dalla mensa “quando il desiderio di cibo è ancora presente”, e citava l'esempio di Ulisse che resiste alla maga Circe proprio perché di appetito spartano. Non così i suoi compagni, tramutati in porci dopo essersi ingozzati.
“Non c'è bene nella gola, nell'ubriachezza e negli abiti troppo eleganti”, osserva Tolstoj riferendosi ai ricchi e si cruccia perché “il loro esempio rovina e corrompe il popolo che lavora”. E ancora: “Se gli uomini mangiassero solo quando sono affamati, e soltanto cibo pulito, cibo sano, cibo semplice, essi non conoscerebbero malattia, e resisterebbero più facilmente a tutte le passioni”, poiché “pochi muoiono di fame. In molti muoiono perché mangiano troppo e non lavorano abbastanza”.
Una scuola di pensiero che, d'istinto, seguono i vecchi centenari: e se contenesse l'elisir dell'immortalità? O quanto meno la pietra filosofale di una vita degna, piena, che sia pregna di un qualche senso?
“Perché sono vegetariano” (Finché esisteranno macelli, esisteranno sempre dei campi di battaglia), Piano B Edizioni, Prato 2016, pp. 192, euro 12, traduzione e cura di Martina Grassi (collana “Elementi”) è il “manifesto” dell'uomo riconciliato con i suoi istinti peggiori, la causa del male, il dolore, l'infelicità. A far riflettere, provocare un senso di smarrimento, di vuoto, un crampo allo stomaco, basterebbe il racconto del 1909 (inedito per l'Italia) “Sangue”, di Michail P. Arcybašev (1878-1926): sublime nella sua scansione ontologica, lirico nel far cogliere al lettore tutta l'energia possente della natura, vibrare l'emozione della vita che si muove nell'animale (primo l'uomo), la nausea per il male e la violenza che abbrutiscono. Infatti lo proponeva “per convertire la gente al vegetarismo”.
Lo scrittore di “Guerra e pace” è anche maestro di vita e oggi sarebbe profondamente annoiato dalle mode che ci soffocano come gramigna tenace, da tutto il ciarpame filosofico con cui si vuole addensare il cibo, tra cucina molecolare, masterchef e la tv ridotta a volgare cucina dove avvengono contaminazioni stomachevoli: pensava infatti che occorre “mangiare per vivere, non vivere per mangiare”. Massima che formatta ogni filosofia applicata al cibo, evidentemente posticcia.
Teorico della sacralità dell'uomo, della sua unicità (“resta pur sempre espressione di un principio eterno”) e della vita ispirata a un'idea di fratellanza (“più compassione riempie il cuore dell'uomo, e meglio è per la sua anima”; “più compassione proviamo per gli animali e meglio sarà per la nostra anima”; “è necessario trattare gli animali allo stesso modo in cui desiderano essere trattate le persone”), considerava il vegetarismo il primo passo verso un'ascesi spirituale, oggi che lo spirito è svaporato, esiste solo la vil materia, il corpo è santificato, il consumo di emozioni seriali e di rubbish, la soddisfazione di bisogni indotti creati dalla pubblicità e dai trend che omologano ogni diversità: voragine in cui l'uomo s'è smarrito e da cui non riesce a sortire.
Tolstoj non è il primo nella Storia a incamminarsi su questa via, egli stesso trova un suo illustre predecessore: Socrate: “Sosteneva – dice il grande narratore – che l'eccesso di cibo e bevande è dannoso non solo per il corpo ma anche per l'anima”. Consigliava ai suoi discepoli di alzarsi dalla mensa “quando il desiderio di cibo è ancora presente”, e citava l'esempio di Ulisse che resiste alla maga Circe proprio perché di appetito spartano. Non così i suoi compagni, tramutati in porci dopo essersi ingozzati.
“Non c'è bene nella gola, nell'ubriachezza e negli abiti troppo eleganti”, osserva Tolstoj riferendosi ai ricchi e si cruccia perché “il loro esempio rovina e corrompe il popolo che lavora”. E ancora: “Se gli uomini mangiassero solo quando sono affamati, e soltanto cibo pulito, cibo sano, cibo semplice, essi non conoscerebbero malattia, e resisterebbero più facilmente a tutte le passioni”, poiché “pochi muoiono di fame. In molti muoiono perché mangiano troppo e non lavorano abbastanza”.
Una scuola di pensiero che, d'istinto, seguono i vecchi centenari: e se contenesse l'elisir dell'immortalità? O quanto meno la pietra filosofale di una vita degna, piena, che sia pregna di un qualche senso?
