'In nome di mia figlia': la recensione

di FREDERIC PASCALI — Nel consueto panorama cinematografico estivo, improntato più marcatamente alle commedie, brillanti e non, ai film d’azione e agli horror di seconda fascia, a volte capita di imbattersi in qualche pellicola che ci riporta repentinamente alle sfaccettature del reale.
È il caso del lavoro diretto da Vincent Garenq con protagonista uno straordinario Daniel Auteil.

Tratto da un terribile fatto di cronaca, “In nome di mia figlia” (“Au nom de ma fille”) è un film breve, solo 87 minuti, che con magistrale sintesi narra il dramma di un padre senza mai perdersi nell’enfasi del dolore.

Nell’estate del 1982 André Bamberski,commercialista di successo, mentre è in vacanza con la sua nuova compagna, riceve una telefonata della sua ex moglie.

Sconvolta gli annuncia la morte di Kalinka, una dei suoi due figli. La quattordicenne è stata ritrovata priva di vita nel proprio letto dal patrigno, il Dottor Dieter Krombach. Le cause non sono chiare e apparentemente non si distaccano da probabili sfortunati eventi naturali.

Ma, dopo essersi fatto tradurre passo per passo il referto autoptico, in André cominciano a montare dei dubbi che puntano tutti verso la condotta e l’operato di Krombach.

La sceneggiatura, scritta a quattro mani da Garenq e Julien Rappeneau, tiene bene le fila di una narrazione che, sostenuta dall’efficacia dei dialoghi, non tradisce mai il realismo della trama e i suoi punti di svolta, tracciando punto per punto l’evolversi della disperazione e della irriducibile volontà di giustizia di André.

Di grande talento l’intero cast dove oltre al già citato Auteil brillano Sebastian Koch, “Dieter Krombach”, consacrato a suo tempo con l’interpretazione ne “Le vite degli altri” (2007, e la belga Christelle Cornil, “Cecile”.

Di rilievo la fotografia di Renaud Chassaing che media i toni di luci ed ombre ben bilanciando cromaticamente l’inchiesta e il racconto biografico.

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