Il teatro dialettale barese e la “Capasedde” di Giovanni Panza

di VITTORIO POLITO – L’Italia, com’è noto,  è uno dei Paesi con più varietà di dialetti, se ne contano almeno uno per ogni Comune italiano, qualcuno, forse, in via di scomparsa. La ripresa dei dialetti negli ultimi tempi e l’interesse che stanno risvegliando, dimostra che gli stessi possono anche essere considerati, a buona ragione, patrimonio culturale dell’umanità, poiché rappresentano le nostre radici, la nostra cultura, la nostra storia e, quindi, da tramandare ai posteri.

 “Il teatro in dialetto barese, come anche le altre forme del costume popolare, quali i canti, la poesia, le feste, negli ultimi anni ha subito profonde trasformazioni, passando da semplice occasione per impegnare il tempo libero, a vera e propria attività culturale che ha sviluppato un completo e notevole miglioramento nella realizzazione degli spettacoli, svolgendo anche una importante funzione pubblica” (Felice Alloggio).

Oronzo Parlangeli, lo studioso che progettò e diresse la “Carta dei dialetti Italiani” per il Consiglio Nazionale delle Ricerche, sosteneva che «Da un lato la storia si ripercuote viva nel dialetto, dall’altro la storia apre il dialetto verso la comunità nazionale più vasta di cui ogni dialetto fa parte».

Nell’epoca della comunicazione globale e di internet, potrebbe sembrare fuori tempo parlare di dialetto o di idiomi locali? Direi proprio di no. Questi sono i veri motivi che dovrebbero stimolarci ad impegnarci di più nell’operazione di promozione, recupero e salvataggio di quello che c’è, dal momento che il dialetto rappresenta, come detto, la nostra storia, le nostre origini, le nostre tradizioni. In una parola la nostra cultura popolare.

Oggi i giovani preferiscono il francese, l’inglese, il russo, l’arabo, ecc., anche per via del gran numero di stranieri ed extracomunitari che ormai popolano il nostro paese e quindi la necessità di meglio comunicare per il lavoro, la scuola e l’integrazione. Ma questo non deve farci dimenticare il passato.

Una delle forme che tende alla salvaguardia dei dialetti, mantenendoli vivi, è rappresentata anche dal teatro dialettale, poiché le rappresentazioni teatrali in dialetto sono le più naturali e spontanee, quindi le più genuine per trasferire la lingua, con la esatta pronuncia e le espressioni originali. In sostanza tutto quello che il teatro in genere può trasmettere al pubblico con la sola spontaneità, senza alcun artifizio. Il teatro dialettale rappresenta anche una operazione culturale di alto livello, dal momento che il dialetto si modernizza conservando sempre la sua immediatezza, il suo colore, la sua cantilena, la sua autenticità. Questo è anche uno dei motivi per cui i piccoli teatri, che hanno in programma la produzione dialettale di nostri autori, hanno molto successo. Ovviamente ci riferiamo al dialetto con la D maiuscola, senza volgarità, senza linguaggi triviali, senza bestemmie. Tanto per intenderci il teatro dialettale di Vito Maurogiovanni, giornalista, scrittore e cantore della memoria storica di Bari, che ha elevato a dignità letteraria e teatrale il nostro dialetto, o quello di Domenico Triggiani, con le sue numerose commedie dialettali e in lingua, ricordato per la sua intensa attività di operatore culturale attento ed impegnato, pluripremiato e decorato, e tanti altri autori.

Un cenno particolare merita il noto poeta e scrittore dialettale barese Giovanni Panza, che ha scritto anche per il teatro, pur non essendo state rappresentate pubblicamente le sue opere. Il numero non è dato di sapere, ma mi piace ricordarne una, donatami dall’autore quando era in vita: “La Capasedde” (Il vaso di Pandora), una farsa in due atti.

Nella mitologia greca, il vaso di Pandora rappresenta il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura. Francesco De Martino, ordinario nell’Università di Foggia, ha immortalato il poema attraverso la pubblicazione sul suo corposo volume “Puglia Mitica” (Levante Editori), a cui è stato assegnato il prestigioso premio “Giovi – Citta di Salerno” 2014, della farsa quasi mitologica dell’edizione critica basata sulla copia d’autore, messa a disposizione da Emanuele Panza, e curata da chi scrive in collaborazione con Rosa Lettini Triggiani e Giuseppe Gioia. Sullo stesso volume si parla del poema epico “La uerre di Troia” dello stesso autore.

Nella “Capasedde” di Panza si susseguono personaggi mitologici come Saturno (u uattane), Giove o Cronos (u figghie), Pandora chiamata Eva (la uagnedde), Caino (Coline), Abele (Cilluzze), e tanti altri. Ma provate a immaginare gli interpreti di certe personalità parlare il nostro bel dialetto come, ad esempio, Eva che chiudendo la ‘capasedde’ si rivolge ad Adamo con questa frase: «Fa mbrime a cresce cà nù senze de te non petime cambà. Crisce figghie; e acquanne sì cresciute, tanne jisse pure tu da la capasedde e va sop’o munne. Fa accapì a l’emene ca de tutte le diaue ca stevene jind’a la capasedde, cudde ca conde chiù de tutte sì asselute tu: la speranza». (Fa presto a crescere che noi senza di te non possiamo vivere. Cresci figlio e quando sarai cresciuto, allora esci pure dalla “capasedde” e va sulla terra. Fa capire agli uomini che fra tutti i diavoli che stavano nella “capasedde”, quello che conta più di tutti sei solamente tu: la speranza).

D’altro canto il teatro dialettale non è teatro di serie B, come qualcuno vorrebbe far credere, ma è la proposizione di una forma di spettacolo eccezionalmente vera, perché l’uso del linguaggio proposto è qualcosa che ci appartiene intimamente e che gli autori trattano temi che, pur rispecchiando la generalità dell’impostazione, vanno a toccare situazioni ed avvenimenti spiccioli del quotidiano che il pubblico riconosce ed apprezza immediatamente.

Da quanto sopra si evince chiaramente l’importanza del teatro dialettale, ulteriore patrimonio straordinario e fondamentale di cultura e sensibilità da salvaguardare, denso di raccordi con infinite realtà e di agganci tra il passato, il presente ed il futuro.

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