LIBRI. 'Il Sud deve morire', per poi rinascere
di FRANCESCO GRECO - “Il primo di giugno dell'anno scorso Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il quattro di giugno...” (Ignazio Silone, “Fontamara”).
Chi conosce il Sud, chi ha percorso le sue polverose contrade, s'è avventurato negli abissi oscuri delle sue mille anime, perduto nelle viscere barocche, stordito dagli odori intensi, i profumi della terra, i colori folli, conosce quella luce violenta, verticale che lo illumina implacabile svelando uomini e cose.
“Il Sud deve morire” (Esecutori, mandanti e complici di un delitto quasi perfetto), di Carlo Puca, Marsilio editore, Venezia 2016, pp. 303, euro 17.50, (Collana “Nodi”) con quella luce ha composto un puzzle tragico, assemblato con i colori del neorealismo rosselliniano. Un Sud graffiti ontologicamente diverso da quello narrato dai media quando “si accendono improvvise le luci della cronaca: una strage, una retata, un rapporto Svimez ”, distante anni-luce dall'universo metafisico inventato dai politici (“dittatorelli”), blandito con le loro parole al miele, analisi false e interessate, soluzioni demagogiche prodotte da una koinè elusiva, un gramelot omertoso.
“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra” (Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”).
Da Lampedusa all'Aquila, toccando Puglia, Campania, Basilicata, Sardegna, Molise, in “un viaggio di fatica e di scoperte”, che “ha mutato la mia indole pacifica e fatalista ”, Puca s'è inoltrato in un labirinto di 3000 km. per cercare la sua essenza primordiale, il dna antico, intimo dell'uomo mediterraneo più che europeo, spingendosi impudico oltre le parole svuotate di senso, quelle che non mentono né consolano e che gli uomini affaticati e stanchi vogliono sentire per trovare la forza di continuare a vivere.
Uno scandaglio implacabile inchioda gli “assassini della speranza”, “infidi come serpenti” alle loro responsabilità: politici corrotti, mafiosi impuniti, imprenditori disonesti, nordisti xenofobi e razzisti, euro-burocrati parassiti e ignoranti, sindacalisti “nullasapenti” e “ufo” (uomini firmanti ognicosa), ma quando arriverete al capitolo “Antimafiosi di maniera” (“Wanna Marchi della legalità”, ”2500 licenze edilizie in una notte nella Palermo di Ciancimino e i beni mafiosi che tornano al mittente) vi verrà la nausea.
Dalla “capitale” del Mediterraneo (Lampedusa) dove la sindaca Giusi Nicolini alla “pizziata” di Maurizietto denuncia gli “interventi spot” dei politici sculettanti, ma anche la generosità di tanta gente pulita che dona ai derelitti il suo tempo e le energie migliori (sapevate che c'è un museo con le terre dei migranti?). Agli (im)prenditori “acchiappa e scappa”, “fuggiti non appena le risorse si sono esaurite”. Sullo sfondo, convitato di pietra, l'Europa decomposta, intenta a devastare il “made in Sud” agricolo: “Olio tunisino, arance egiziane, pomodori marocchini” e a misurare la vulva delle vongole e la “curvatura di frutta e ortaggi”.
Godibilissimo il paragrafo sul centinaio di parlamentari meridionali che hanno cambiato casacca, e non certo per motivi ideali: da destra a sinistra, da sopra a sotto, dall'alto in basso: nel descriverli Puca provoca in noi il disgusto aspro della feccia. La speranza era nei 5 stelle se non si fossero incartati nell'assistenzialismo (reddito di cittadinanza) quale unica risorsa del meridionalismo perdente.
“Pensiamo che non sia un disonore riconoscersi poveri, ma che sia un'autentica degradazione non tentare di liberarsi dalla povertà”, (Tucidide).
Un saggio amaro e coraggioso, che lascia sgomenti. Puca è uno degli ultimi testimoni di un giornalismo nobile e antico, sospeso tra passione e furore, che pareva estinto, soffocato dalla perfida gramigna della sociologia, bella scrittura in ghingheri, cinico e servile, che sgomita per acconciare le coperte al Principe, e lascia immutato sine die lo status quo.
Carlo ha due bambini, vuole di dar loro un mondo meno brutto, e noi con lui. E consegna un urlo alla Munch per “ignari”, “scettici”, “inconsapevoli”. Un'allegoria nuda e cruda, commovente di un Sud che non si ritrova nell'icona che chi lo domina ha costruito per soggiogarlo e derubarlo meglio (“Che siano maledetti, davvero”), e di cui vuole sbarazzarsi: morire per rinascere (“La morte odora di resurrezione”, Montale), come la fenice, a una nuova vita, dove vecchie e nuove sudditanze saranno sgretolate e la giustizia sociale sarà una conquista definitiva. Il pane, pulito e onorato, verrà dopo, e avrà il sapore antico della libertà e della dignità.
Chi conosce il Sud, chi ha percorso le sue polverose contrade, s'è avventurato negli abissi oscuri delle sue mille anime, perduto nelle viscere barocche, stordito dagli odori intensi, i profumi della terra, i colori folli, conosce quella luce violenta, verticale che lo illumina implacabile svelando uomini e cose.
“Il Sud deve morire” (Esecutori, mandanti e complici di un delitto quasi perfetto), di Carlo Puca, Marsilio editore, Venezia 2016, pp. 303, euro 17.50, (Collana “Nodi”) con quella luce ha composto un puzzle tragico, assemblato con i colori del neorealismo rosselliniano. Un Sud graffiti ontologicamente diverso da quello narrato dai media quando “si accendono improvvise le luci della cronaca: una strage, una retata, un rapporto Svimez ”, distante anni-luce dall'universo metafisico inventato dai politici (“dittatorelli”), blandito con le loro parole al miele, analisi false e interessate, soluzioni demagogiche prodotte da una koinè elusiva, un gramelot omertoso.
“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra” (Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”).
Da Lampedusa all'Aquila, toccando Puglia, Campania, Basilicata, Sardegna, Molise, in “un viaggio di fatica e di scoperte”, che “ha mutato la mia indole pacifica e fatalista ”, Puca s'è inoltrato in un labirinto di 3000 km. per cercare la sua essenza primordiale, il dna antico, intimo dell'uomo mediterraneo più che europeo, spingendosi impudico oltre le parole svuotate di senso, quelle che non mentono né consolano e che gli uomini affaticati e stanchi vogliono sentire per trovare la forza di continuare a vivere.
Uno scandaglio implacabile inchioda gli “assassini della speranza”, “infidi come serpenti” alle loro responsabilità: politici corrotti, mafiosi impuniti, imprenditori disonesti, nordisti xenofobi e razzisti, euro-burocrati parassiti e ignoranti, sindacalisti “nullasapenti” e “ufo” (uomini firmanti ognicosa), ma quando arriverete al capitolo “Antimafiosi di maniera” (“Wanna Marchi della legalità”, ”2500 licenze edilizie in una notte nella Palermo di Ciancimino e i beni mafiosi che tornano al mittente) vi verrà la nausea.
Dalla “capitale” del Mediterraneo (Lampedusa) dove la sindaca Giusi Nicolini alla “pizziata” di Maurizietto denuncia gli “interventi spot” dei politici sculettanti, ma anche la generosità di tanta gente pulita che dona ai derelitti il suo tempo e le energie migliori (sapevate che c'è un museo con le terre dei migranti?). Agli (im)prenditori “acchiappa e scappa”, “fuggiti non appena le risorse si sono esaurite”. Sullo sfondo, convitato di pietra, l'Europa decomposta, intenta a devastare il “made in Sud” agricolo: “Olio tunisino, arance egiziane, pomodori marocchini” e a misurare la vulva delle vongole e la “curvatura di frutta e ortaggi”.
Godibilissimo il paragrafo sul centinaio di parlamentari meridionali che hanno cambiato casacca, e non certo per motivi ideali: da destra a sinistra, da sopra a sotto, dall'alto in basso: nel descriverli Puca provoca in noi il disgusto aspro della feccia. La speranza era nei 5 stelle se non si fossero incartati nell'assistenzialismo (reddito di cittadinanza) quale unica risorsa del meridionalismo perdente.
“Pensiamo che non sia un disonore riconoscersi poveri, ma che sia un'autentica degradazione non tentare di liberarsi dalla povertà”, (Tucidide).
Un saggio amaro e coraggioso, che lascia sgomenti. Puca è uno degli ultimi testimoni di un giornalismo nobile e antico, sospeso tra passione e furore, che pareva estinto, soffocato dalla perfida gramigna della sociologia, bella scrittura in ghingheri, cinico e servile, che sgomita per acconciare le coperte al Principe, e lascia immutato sine die lo status quo.
Carlo ha due bambini, vuole di dar loro un mondo meno brutto, e noi con lui. E consegna un urlo alla Munch per “ignari”, “scettici”, “inconsapevoli”. Un'allegoria nuda e cruda, commovente di un Sud che non si ritrova nell'icona che chi lo domina ha costruito per soggiogarlo e derubarlo meglio (“Che siano maledetti, davvero”), e di cui vuole sbarazzarsi: morire per rinascere (“La morte odora di resurrezione”, Montale), come la fenice, a una nuova vita, dove vecchie e nuove sudditanze saranno sgretolate e la giustizia sociale sarà una conquista definitiva. Il pane, pulito e onorato, verrà dopo, e avrà il sapore antico della libertà e della dignità.