Anno bisestile e superstizioni di marinai

di VITTORIO POLITO - L’anno bisestile, secondo alcuni, è portatore di sciagure, infatti si dice “anno bisesto, anno funesto”, ma così non è se si tiene conto degli avvenimenti accaduti, anche nell’anno appena trascorso, come guerre, terremoti, tsunami, il ponte di Genova, tutte cose che accadono sempre e in certi casi addebitabili all’uomo (come Genova).

La cattiva nomea dell’anno bisestile risale al tempo dei Romani, poiché calcolavano due volte il sesto giorno prima delle calende di marzo, corrispondente al 24 febbraio e questo per far quadrare il bilancio dei giorni completi dell’anno (?).

Secondo la legge di Murphy, la sfortuna non ha bisogno degli anni bisestili per colpire, lo fa tutti gli anni e tutti i giorni. Per “Legge di Murphy” si intende un insieme di detti popolari provenienti dalla cultura occidentale che, riassumibili in una precisa e originaria formula (“se qualcosa può andar male, lo farà”), hanno poi dato vita a moltissimi principi.

Per l’anno 2000, come se non bastassero le inquietudini di fine millennio, era prevista anche la fine del mondo e siamo nel 2020 e tutto ha proceduto e procede normalmente, indipendentemente se l’anno è stato bisestile o no.

I marinai, ad esempio, sono superstiziosi, anche i romani ritenevano che alcune cose non andassero fatte, come ad esempio: tagliarsi i capelli e le unghie con il tempo buono, per non arrecare cattivo augurio alla navigazione; era prudente non starnutire salendo a bordo, non ballare o bestemmiare, non avere rapporti sessuali. Era anche sconsigliato morire (?), divieto quanto mai opportuno essendo la morte a bordo il peggiore dei presagi.

Marinai e pescatori, nonostante il progresso dell’istruzione e della civiltà, conservano le loro credenze e le loro superstizioni, quale residuo di tempi andati. Essi credono, infatti, in esseri soprannaturali, i folletti, creati dal demonio per insidiare gli uomini. Il folletto è il nome generico che si applica a una categoria di esseri favolosi, creature della fantasia popolare, raffigurato come piccolo di statura, burlone, bizzarro. Ritenuto responsabile di sorprese, fatti inverosimili, tiri pericolosi, a volte benefici, assume nomi diversi nei vari paesi e nelle differenti regioni: ‘salvanello’ nel Veneto, ‘monacello’ in Calabria, ‘farfareddu’ in Sicilia, ecc. Il ‘munaciedde’ o ‘u scazzamurriedde’: sono folletti di nostra conoscenza, nano il primo, scende di notte dal fumaiolo, non poggia i piedi per terra e si sostiene in mezzo alla camera in equilibrio. Il secondo, un folletto, poco diverso dal primo, è di un fanciullo bizzarro e capriccioso, che compie mille stranezze, apparendo durante l’infuriare delle bufere. Suscita i venti, rende vorticoso il mare, è ritenuto responsabile di scricchiolii insoliti, della rete che si impiglia e così via.

Anche i maghi sono oggetto di credenza da parte della gente di mare, o dell’esistenza di sirene ingannatrici o di iettatori. Per neutralizzare le loro malefiche azioni, alcuni marinai hanno l’abitudine di indossare l’abitino della Madonna del Carmine, o la fettuccia benedetta della Madonna del Pozzo, oppure pietre triangolari e marmoree dette di San Michele. Secondo Virgilio, Turno, l’antagonista principale nel poema dell’Eneide, per sfuggire alle navi troiane, si cacciò nel Tevere, ma prima attinse un po’ d’acqua nel cavo della mano votandosi al genio del fiume. Anche i nostri marinai ed i bagnanti, prima di calarsi in mare si fanno il segno della croce dopo aver attinto la mano nel mare. Il fischio all’orecchio destro significa che la gente sparla di noi, al sinistro invece vuol dire esattamente il contrario.

Per oggi mi fermo ai marinai, ma di superstizioni ve ne sono a centinaia, come malocchio, iettatura, oggetti pericolosi, giorni nefasti, animali, azioni atmosferiche, ecc.

E per scacciare dalla nostra mente le preoccupanti previsioni appena elencate, Arturo Santoro (1902-1988), ci fa sorridere con la sua simpatica poesia.

La Superstizione

Da “I fili di seta” di Arturo Santoro

N’àld fìle de sete u strènge la superstizziòne, e jè nu file chiù settìle de la religgiòne.

Acchemmènz ca: “de Venere e de Màrt, non ze spose e non ze pàrt” e po’ dìsce ca ci jàcchie pe le strate nu funeràle, pe tùtt la scernàte port male (ma a Nàbbue dìscene ca pòrt fertùne, e ci àve rasciòne non’u sàpe nesciùne).

Se dìsce pure ca jè na scernàte scalegnàte, ce jàcchie da nànz nu cemmerrùte o nu streppiàte, ma jè bbuène sègne ce jàcchie nu cavàdd biàngh e nu seldàte! Porte sfertùne a passà sott’a na scàle, e ce se scètt’a tàue nu pìcche d’ègghie o u sale.

Ce po’ se ròmb nu spècchie, jè pesce assà, ca se tràtt de passà settànn de uà! Ma ce ’n càse tràse d’estate nu mesquòne, se dìsce ca stònn ’n viàgge netìzzie bbòne! Non parlàme se po’ sò 13 a tàue, l’envetàte, và a fernèsce che nu prànz desterbàte!
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