Il soprannome barese tra significato, storia e curiosità

di VITTORIO POLITO - Il soprannome o nomignolo è un appellativo distintivo di una persona che si usava aggiungere al nome proprio, derivandolo generalmente dal nome di uno dei genitori, dal luogo di origine, dal mestiere esercitato o da un appellativo equivalente, al moderno cognome, diverso, sotto certi aspetti, dal nome proprio e dal cognome, prendendo generalmente spunto da qualche caratteristica fisica o altro, con cui si usa chiamare per scherzo o per ingiuria una persona.

Manlio Cortelazzo (1918-2009), già professore emerito dell’Università di Padova, uno dei massimi esperti in materia, autore di numerose pubblicazioni scientifiche sull’argomento, sostiene che «I soprannomi costituiscono il nerbo dell’onomastica, la scienza dei nomi propri: ne accompagnano l’origine, l’evoluzione, i punti d’arrivo. Eppure sono guardati con sospetto e timore, perché sfuggono ad ogni tentativo di spiegazione razionalmente condotto».

A Bari, nella città vecchia, esiste una via con il nome di “Roberto il Guiscardo”. In realtà egli si chiamava Roberto d’Altavilla, ma, le sue vicende politiche lo portarono, tra l’altro, a circondare il Papa Nicolò II di ogni cura e rispetto, tanto che il Pontefice nell’anno 1059 lo investì del titolo di “Duca di Calabria e di Puglia per grazia di Dio e di S. Pietro”. Si creava così una nuova situazione politica e giuridica nel Mezzogiorno d’Italia, che avrebbe avuto sviluppi di grande importanza storica nei secoli seguenti. Da queste vicende probabilmente il soprannome di “Guiscardo” (furbo, astuto).

Sempre nel centro storico è presente la “Corte di Lascia fare a Dio” (da Arco Alto a largo Albicocca), che potrebbe essere classificato tra quelli sacrali, ripetutamente riferito a persone appartenenti a certa famiglia “Ladisa”, che probabilmente abitavano da quelle parti (esempio “Gio Batta la Disa” alias “Lascia Fare a Dio”), citato dal notaio Ubaldo Ubaldini in un suo atto del 5 ottobre 1697.

Dagli archivi baresi (San Nicola e Cattedrale) di oltre un millennio fa è possibile leggere soprannomi di vario genere.

Tra i componenti degli equipaggi che trafugarono le ossa di San Nicola è possibile conoscere soprannomi come: Melicianna boccalata, Stefanus bos, Romualdus volpagna, Sire Azzo caballo, Petracca caperrone, Iohannoccarus mancus o Stefanus de cretazariis, ecc., riportati da Vito Antonio Melchiorre (1922-2010) nel suo libro ‘Bari vecchia’- (Adda Editore).

Numerosi sono i soprannomi che a partire dal Medioevo ai giorni nostri si trovano in atti ufficiali, insieme al nome vero, che stanno ad indicare come detto, parti del corpo, difetti fisici, mestieri, professioni, come ad esempio: Lo Panzuto, Lo Surdo, Capo di Ferro, Cavalliero, La Gatta, La Volpe, Guardavaccaro.

Molti dei significati originali sono stati nel tempo travisati e, molto spesso, è stata effettuata una sorta di ‘supertraduzione’, come ad esempio, il caso di ‘cazze cazze’, che corrisponde all’espressione italiana ‘venirsene tomo tomo’, cacchio cacchio, ‘venirsene da ingenuo, da imbecille’. Nell’elenco compaiono anche modi di dire, da semplici attributi di una categoria (‘cape de pezze’ = suora), entrati a far parte anche di una lista di soprannomi.

Il pronome ‘Chidde de…’ sta ad indicare la famiglia, l’attività o il mestiere esercitato; ‘Carghe n-gape’ = cornuto; ‘Cheppuniste’, chi contrae debiti a non finire; ‘La Mosce’, attribuito a chi aveva il viso butterato dal vaiolo; ‘Mèstefuèche’, era chiamato un abile artefice di fuochi.

Vito De Fano non si è lasciato sfuggire l’occasione per scrivere una poesia ricordando diversi soprannomi dei baresi.


NGOCCHE SOPANOME DE LE BARISE
di Vito De Fano

Mba Nòfrie u tèrte e don Mechele u ciùmme
nzjeme a Gnagnùdde e Cole mjenze core,
Fafuèche, Fattacciùcce e Cape de cchiùmme,
scèrene da Pasquàle manad’ore

pe disce ca Gugù pjette a palùmme,
u figghie de Perchiùse u prefessòre
che Beccone, Brezànghe e mba Chelùmme,
Sparrèdde, Megnerùdde e Ciola gnore,

jèrene sciùte a case de Peddècchie,
u ziàne de Gnessè menza sciàbbue
e canate a Gelòreme quattècchie,

pe demannà percè ca u figghie scàbbue,
apparolàte a Rose mammalàgne,
mò spesàve la figghie de Zù Fagne?

E Peddècchie arraggiàte respennì:
Sciàte da Calandrjedde o Corighì,
ca chisse, amisce, no nzò… fatte mì.

Da “Benàzze” di V. De Fano, Schena Editore, Fasano (Br)
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