Gli strani costumi sessuali e matrimoniali del Tibet nel duecento

di VITTORIO POLITO – Sfogliando il libro di Felice Alloggio “La letteratura italiana in dialètte barèse” (Wip Edizioni), mi capita di leggere una curiosa pagina sui costumi e le abitudini sessuali e matrimoniali tibetane, riferite a quei tempi, ripresi da “Il Milione” di Marco Polo (1254-1324) e tradotta in dialetto barese dal noto commediografo, attore e regista.

Nel libro del viaggiatore citato, si parla dell’attraversamento di alcune regioni limitrofe al Tibet, dedicando a questa regione misteriosa e sconosciuta alcune pagine del testo.

Nella parte sud-occidentale del Tibet si trova l’altopiano chiamato “Tetto del mondo”, dove risiede principalmente la nazionalità tibetana.

Quali sono le loro usanze matrimoniali? Si dice spesso: “Paese che vai, usanze che trovi”. Per esprimere il proprio amore, i giovani tibetani adottano i sistemi del canto, dell’offerta di regali preziosi o del furto del cappello.

Prima del 1959 in Tibet si praticava il dominio feudale della servitù della gleba e le usanze matrimoniali erano molto complicate. Oltre alla monogamia, che era la più seguita nella società, erano praticate anche la poligamia e il sistema di una moglie e molti mariti, ecc. Dopo la riforma democratica, anche le usanze matrimoniali sono cambiate e la monogamia è ormai diffusa in quella regione. Ma questa è un’altra storia.

Il brano tradotto da Alloggio, narra di certe strane abitudini sui rapporti matrimoniali e sessuali tibetani, leggibile piacevolmente “condito” con il dialetto barese

Durante i suoi viaggi, Marco Polo, transitò da un paese ove c’era una strana usanza finalizzata al matrimonio delle ragazze. Nessuna ragazza si sposava, se vergine, anzi più maschi aveva conosciuto e più facile era sposarsi. Per questo motivo le mamme facevano sostare le figlie sempre vicino alla porta di casa, per far sì che quando passavano i mercanti li invitassero in casa “a fa le fatte lore che le uagnèdde”, cosa che avveniva diverse volte nella giornata.

Il mercante, una volta soddisfatte le voglie, regalava alla ragazza un gioiello o un monile, cosicché la ragazza poteva mostrare al pretendente di aver “collezionato” diversi “incontri”, per cui “chiù gioièlle tenève la uagnèdde, chiù probabeletà stèvene de spesàrse” (più gioielli teneva la ragazza, più probabilità aveva di sposarsi).

Per l’esattezza, il numero ideale di gioielli che una donna doveva tenere per trovare marito era di venti, ma più ne aveva e più alta era la considerazione e l’amore del pretendente per la donna che doveva sposare!
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