'Notturno': la recensione


FREDERIC PASCALI
- Il nuovo documentario di Gianfranco Rosi, presente nel concorso ufficiale della Mostra del cinema di Venezia, è il frutto di un lungo lavoro d’osservazione, protrattosi per ben 3 anni, nei luoghi dai confini tra i più martoriati dell’intero Medio Oriente. Siria, Libano, Iraq e Kurdistan sono i territori prescelti, con nel loro passato remoto l’impero Ottomano e l’Isis in un passato prossimo ancora non affatto sopito e segnato da una lunga dominazione coloniale. È sulle linee di questi tracciati che si muove la macchina da presa di Rosi. Lasciando lo sguardo libero di raccogliere ogni suono di quel mondo ci sembra di assistere a singole rappresentazioni di porzioni di una quotidianità modellata dai propri contesti storico sociali. 

In comune tra loro hanno una routine per nulla succube dei tempi della tragedia che come un mantra ineluttabile aleggia nelle varie realtà. Così tutto si traduce in un’attesa modulata dai gesti di sempre con l’abitudine alla guerra, alla morte, alla perdita che alla fine si esaurisce in quella che non è nient’altro che l’abitudine alla vita. Con la complicità di una fotografia esteticamente prorompente, curata nella correzione colore dall’eccelso Luca Bigazzi, “Notturno” è ogni volta un affresco differente dove le immagini si scambiano pennellate con una densità che varia a seconda dell’intensità della scena. 

Olio per il lamento della madre che ha perso il figlio, e ne rievoca la memoria tra le mura del carcere che l’ha visto martire, con la fotografia che sembra aggiungere pastosità e materia annichilendo chi guarda fino a deformarne la percezione dell’attesa, amplificando l’angoscia e la frustrazione dei sensi. Un tenue acrilico per la caccia nel canneto al tramonto con la sublimazione della sospensione della realtà che raggiunge il suo apice trasformando tutto quello che c’è, e che c’era, in un placido pensiero di normalità e di speranza. 

Tuttavia la bellezza e la potenza delle immagini e delle simbologie, come non dimenticare il bastione delle combattenti kurde, il passaggio dei barconi da trasporto, lo spettacolo teatrale della clinica psichiatrica, non sempre riescono a erodere quella patina di estrema ridondanza che a tratti imperversa nel lavoro di Rosi, saturando fino all’estremo i suoi significati e il suo deserto dei Tartari, abdicando troppo spesso all’ambiguità teatro/realtà.

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