2034, venti di guerra da videogiochi

FRANCESCO GRECO - “Agli ammiragli che perdono tutte le loro navi non danno medaglie”.

Se da Sun-Tzu a von Clausewitz la guerra è la prosecuzione della dialettica politica con altre declinazioni, l’ultimo secolo ne ha cambiato profondamente la semantica, e ci sono infinite guerre di varia etimologia, combattute con mezzi sottintesi, in cui siamo immersi ormai senza accorgercene.

“L’America non è più quello che crede di essere…”.

Quella immaginata da Elliot Ackerman e James Stavridis (ammiraglio) nel thriller “2034” (Il romanzo della prossima guerra mondiale), SEM , Milano 2021, pp. 300, euro 18 (ottima traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli), è perfettamente rappresentativa del XXI secolo.

“Tagliare i cavi sottomarini per far piombare l’America nell’oscurità…”.

L’anno evocato è spaventosamente vicino, e ci si può domandare se un conflitto che partendo da un’area ben definita (qui il Mar Cinese Meridionale e i cieli dell’Iran), poi deflagra ovunque, non sia già work in progress senza che ne sappiamo leggere i segni.

Scritta benissimo sotto forma di diario, con uno stile asciutto, essenziale, con tutti i tecnicismi delle navi e degli aerei (gli autori sono esperti del settore, parlano da dentro quel mondo come Senofonte nell’Anabasi).

Pagina dopo pagina, però, sembra un plot un po’ datato come concept, nel senso che le guerre moderne, più che affondando navi e abbattendo aerei, si combattono su altri livelli: hacker, speculazioni finanziarie, epidemie, virus e quant’altro. Si ottengono effetti ancora più devastanti disarticolando economie e poi facendo shopping per un boccon di pane. Sono passati anni-luce dalla guerra di Troia, e secoli dal secondo conflitto mondiale. Lo stesso Vietnam di “Apocalipsye Now” appare mera archeologia. E’ da molto tempo che Toshiro Mifune è sceso dalla tolda della sua nave e che anche l’ufficiale Robert Mitchum ha posato il cannocchiale.

E’ sono cresciute anche una coscienza, e una cultura, pacifiste.

Se siamo tutti profilati e taggati e se ci sono ragazzini che dal loro tinello armeggiando con un pc da 100 dollari possono intrufolarsi sul sito della Casa Bianca e svelarne i disegni in itinere, il maggiore Mitchell, la capitana Susan Hunt (“Stonewall”) sotto inchiesta (“Per battere la tecnologia non serve più tecnologia, ma meno tecnologia”), l’ammiraglio Lin Biao e affini appaiono buoni per un videogioco da regalare a Natale, eredi del famoso soldato giap che emerge dalla jungla con l’elmetto. Si possono affamare i popoli e piegare le economie di interi paesi (la Grecia, per dire, l’altro ieri e prima Cuba) e poi comprarne gli asset più importanti. Se così è, non siamo forse immersi in guerre quotidiane non dichiarate ma assai cruenti?

E’ la guerra degli inossidabili burocrati che processano chi la fa abbarbicati a un codicillo, ma anche dei “porci” di cui diceva Hemingway, che la dichiarano e poi costringono la povera gente a combatterla. La guerra sciocca di chi rinuncia a una vita privata per la carriera finendo poi nell’oblio e nella depressione.

La guerra che cambiato la sua semantica: Achille che mette il muso con Agamennone che si è presa Briseide ed Enea con Priamo che lo considera un mediocre è da libro di epica. E l’etica di Handrickson è da libro Cuore. Particolare curioso: americani, cinesi, iraniani e indiani: mangiano tutti spazzatura. La psicologia della guerra sta anche in quel che c’è in tavola?

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