"Nope": la recensione

FRÉDÉRIC PASCALI - L’ignoto da sempre rappresenta un confine capace di generare paure e passioni contrastanti, determinando riflessioni e punti di vista inediti. Jordan Peele torna in sala con un’opera che, tra molte luci e qualche ombra, conferma il suo grande talento. Lo fa affidandosi a una fantascienza striata con componenti horror, non adusa all’uso dell’enfasi, infarcita di molti simboli e richiami di genere e di pellicole del passato. 

Il suo “Nope”, a suo modo, processa le degenerazioni di una società dell’immagine, ormai incapace di liberarsi delle proprie ossessioni, utilizzando il caso e la ribellione per sottolineare le linee di fuga di una prospettiva apparentemente oscura.
Sin dal principio la vicenda appare incastonata in qualcosa di strano, di sinistro. Un massacro avvenuto in un episodio di una sitcom di successo della fine degli anni ’90. Una delle tante scimmie interpreti di Gordie, il protagonista della serie, spaventata dallo scoppio di un palloncino, impazzisce e si scaglia contro tutti gli attori del set. Molti anni dopo, ai giorni nostri, di quel set è rimasto il ragazzino dell’epoca che ora è un uomo, florido commerciante di cavalli e impresario di spettacoli western a tema. Accanto alla sua proprietà c’è il ranch degli Haywood, da tempo allevatori di cavalli e addestratori per il cinema. Il capostipite, Otis, qualche anno prima è morto in sella al suo cavallo, colpito all’improvviso da delle monete piovute dal cielo. Il figlio, OJ, e sua sorella, EM, un giorno si accorgono che dietro una strana nuvola si nasconde quello che sembra essere un disco volante. È la stessa nuvola presente alla morte del padre. Filmare quell’oggetto non identificato può essere la svolta tanto attesa.
Da questo momento in poi Peele accentua i ritmi e le tensioni rivelando lentamente le forze e i misteri in campo. In un’atmosfera di stampo quasi lynchiano i protagonisti, ottima l’interpretazione di Daniel Kaluuya e Keke Palmer, fortemente caratterizzati nelle loro espressioni, vengono trascinati in una specie di grande rodeo nel quale sopravvivere non è l’unica cosa che conta.

Daniele Martini

Sono un giornalista pubblicista, docente di comunicazione e sostegno. Sono un operatore della comunicazione.

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