Homo sapiens, tra alienazione e miti contemporanei dei mass media

-MayaQ-/Pixabay

SANTA FIZZAROTTI SELVAGGI -
E dopo un inverno 2022 vissuto tra tensioni di diverso genere quali guerre, conflitti, virus, catastrofi naturali leggo sui volti delle persone insofferenza, ansia, preoccupazione e spesso anche terrore. Mascherine e dispositivi medici, vaccini...per tentare di evitare problemi E poi dopo una estate vissuta tra Omicron e quarte dosi, improvvisa caduta di governo ed elezioni politiche, frotte di vacanzieri alla ricerca di una libertà inesistente perché questa o la si ha dentro di sé oppure trattasi di una ricerca difficile mi sono posta la seguente domanda: ma ci sarà un futuro ancora sereno per l’umanità?

Inquietante sembra il destino dell’homo sapiens che oggi sembra alienarsi in modo anacronistico nelle fiabe di principi e regine defunte per limiti di età, o altri miti contemporanei creati dai media. Le stelle staranno ancora a guardare questo immenso dolore dell’esistere in quanto tale, questa confusione funzionale al tramonto dell’ Europa, dell’Occidente? Certo l’Occidente deve rivedere i suoi assunti di base e posizioni nei confronti delle altre culture e civiltà, ma solo l’Occidente?

No di certo: se non si analizzano le ragioni di tutte le parti in gioco, se non si creano “terze terre" o terre di mezzo in cui sia solo la conoscenza quale antidoto agli stereotipi, ai pregiudizi e alle prevaricazioni e violenze non si andrà mai da nessuna parte. E se pur anche in ambito volontaristico si generano piccole faide localistiche allora vuol dire che anche la solidarietà che ci distingue dagli altri esseri viventi ha trasmigrato altrove.

E le grandi lobby continueranno a dominare l’economia mondiale creando da una parte classi abbienti e dall’altra classi in estrema povertà di mezzi, non certo di spirito? La pace è, il risultato di una difficile conquista interiore. Ma per essere in pace con gli altri è necessario non essere in conflitto con se stessi. Soltanto in tal modo è possibile stemperare le polemiche, comprendere le ragioni altrui, accogliere senza timori e diversità, mediare fra le culture ben consapevoli della propria storia e identità.

I conflitti sono, in realtà, il passaggio all’atto di profondissimi sentimenti distruttivi che non si sono trasformati in parola. Con la guerra, ovvero con il più grande oltraggio alla dignità umana, si firma, dunque, il trattato con la Morte non soltanto biologica, bensì intellettiva e creativa. Con la pace si stabiliscono i termini di una comunione dialettica di propositi e di progettualità che facilita il superamento degli egoismi individuali all’interno di un effettivo democratico processo storico, culturale e sociale. Di qui l’urgenza di una nascita di una diversa responsabilità nei confronti di se stessi, degli altri e di tutta la comunità civile.

Ha scritto J. Hillman in un suo libro che siamo tutti attratti dall’orrore, ma siamo tutti capaci di trasformare l’orrore che abita dentro di noi nella possibilità di credere, immaginare e progettare i luoghi del Bene: l’Utopia.

Spesso proiettiamo all’esterno il Nemico che abita in noi. A noi tocca il compito di illuminare quei luoghi segreti che sottendono le nostre identificazioni e la nostra connaturata violenza.

Ed è a questo punto di queste riflessioni che vorrei ricordare Omero, quando nell’Iliade ci pone dinanzi a due aspetti dell’essere umano: l’efferatezza e la pietas. Mi riferisco, come alcuni studiosi, all’episodio di Achille che dilania il corpo di Ettore e al pianto dello stesso Achille dinanzi a Priamo che gli richiedeva il corpo del figlio.

A queste voci intenerito Achille,

membrando il genitor, proruppe in pianto

e preso il vecchio per la man, scostollo

dolcemente. Piangea questi il perduto

Ettore ai piè dell’accusore, e quegli

or il padre, or l’amico, e risonava

di gemiti la stanza.

(Omero, Iliade, trad. Monti)


Nel brano omerico emerge, nonostante tutto, il sentimento della “compassione”, ovvero del sentire insieme, della condivisione delle sofferenze. Si tratta della capacità empatica che dovremmo trovare dentro di noi per metterci “nei panni dell’Altro”, al posto dell’Altro, pur mantenendo la “giusta” distanza che consente la relazione d’aiuto. Non esiste umanità, non esiste civiltà senza “compassione”, senza “condivisione”.

L’essere umano, come spesso ho scritto e che ripeto pur non amando le ripetizioni, è un essere complesso, e come tale sempre poco conoscibile nella sua interezza: l’uomo è ambivalente; in lui convivono tratti problematici, gli aspetti che tendono alla disarticolazione e alla disintegrazione.

«L’odio, come relazione nei confronti dell’oggetto – scrive Freud – è più antico dell’amore; esso scaturisce dal ripudio primordiale che l’Io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli».

Un odio che, come sostengono alcune Scuole Psicoanalitiche, può essere “freddo” o “caldo”: ma è quello freddo che si trasforma in indifferenza assoluta. Siamo dominati dalla paura in un mondo abitato dal cinismo. «L’odio freddo può risultare alla fine più letale dell’odio caldo ed espressivo, e può assumere la forma di una indifferenza estrema. L’odio freddo è quello per esempio di Albert Speer, conosciuto per il suo apprezzamento di cose raffinate come l’opera, la musica classica e l’arte, che non ha mai ucciso un ebreo. Ugualmente Madeleine Albright, una diplomatica molto istruita e intelligente, non ha mai ucciso un’anima viva. Tuttavia, entrambi hanno preso decisioni e messo in pratica politiche che hanno ucciso centinaia e migliaia di civili innocenti». ( in Violenza o dialogo, ? a cura di Sverre Varvin e Vamik D. Voollkan, Rivista di psicoanalisi, Borla, 2006).

È evidente che in qualche modo odiano e amano tutti: cambiano gli strumenti con cui si esprime l’odio ma «l’odio giustificato è una condizione pericolosa perché conduce facilmente alla disumanizzazione dell’altro. Tragicamente entrambe le parti credono che il loro odio sia giustificato e che sia una reazione all’odio e al comportamento dell’“altro”.Di conseguenza, qualsiasi cosa facciamo, è una risposta giustificata»”. (Cfr Op.cit)

Una disumanizzazione in cui proprio il “terrore” è il primum movens dell’annientamento della personalità, del nome, del corpo, della psiche e finanche della sepoltura. Nel genocidio, per esempio e come osservato da molti, la parola d’ordine è “sterminateli tutti”, a cominciare dalle donne dopo averle oltraggiate oltre misura. Alle vittime non rimane che il silenzio. D’altra parte, per alcuni psicoanalisti, “l’uccidere” ha anche il profondo significato inconscio di stupro: violazione della Madre-Terra, delle donne generatrici di vita.

La vita è, invece, il bene più prezioso, e la salute è onnicomprensiva e non ha riferimento certamente alla dimensione edonistica alla quale i media artatamente ci hanno abituato seguendo indicazioni di certe logiche ….. Il rispetto per la persona umana è centrale nel discorso della “convivialità” delle differenze( Don Tonino Bello ). Ma la reciprocità e la comprensione presuppongono un ascolto diverso dell’Altro fondato sulla responsabilità, generosità, libertà di pensiero in grado di trascendere le ambivalenze proprie della natura umana. È questo, credo, il focus centrale del dialogo tra i popoli e le generazioni che ci rende all’Umanità, al nostro sentirci esseri umani con il cuore che batte all’interno dello stesso destino. Una Umanità che si inscrive al di là di ogni contrattualità economica e politica o partitica e fa sì che gli esseri umani tutti indistintamente non siano oggetti di scambio, merce sul mercato dei profitti, degli utili, delle prevaricazioni, della violenza.

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