'Iperconnessi', e se decidessimo di spegnere i cellulari? Parla la regista Teresa Conforti   


FRANCESCO GRECO -
Chissà cosa direbbe il marziano di Ennio Flaiano se tornasse a Roma e ci vedesse attaccati al cellulare dalla mattina alla sera. Forse penserebbe che siamo affetti da una qualche patologia sconosciuta. Chissà. 

Fatto è che lo smartphone è ormai una parte importante della nostra quotidianità, quasi del nostro corpo. Non ne sapremmo fare a meno, per lavorare, informarci, intrattenere rapporti, comunicare e tanto altro, performance ottenibili con l’ennesima app in stand-by.  

Quando un cellulare collassa, portandosi via in una dimensione ancora ignota numeri e foto, andiamo in depressione.

Ogni tanto esce in libreria qualche trattato sui danni che l’iperconnessione può provocare. Minacce che tranquillamente bypassiamo non senza qualche gesto scaramantico.  

Il tablet e la sua semantica sbarcano adesso in teatro grazie a “Iperconnessi”, due atti di Teresa Conforti, testo che nasce sull’interesse creato dalla web serie “Il tempo delle farfalle – 7 giorni senza smartphone in cambio di 4 libri”, dove si continua ad affrontare la tematica della dipendenza dai cellulari e la rete. 

La compagnia di Bari “Il Sipario” porta in scena lo spettacolo, la regia è della stessa autrice, giornalista di razza.   

DOMANDA: Stiamo perdendo il contatto con gli altri e con la realtà, a causa di questi aggeggi, nel senso che ci stiamo isolando dal mondo, ipnotizzati come bambini?  

RISPOSTA: ”Si. Oggi si vive attraverso il nostro smartphone. Il cellulare rappresenta un filtro tra noi e il reale. Andiamo ad un concerto? Passiamo tutto il tempo a scattare foto o fare selfie. Più che fruire del concerto dal vivo facciamo una telecronaca per i nostri followers di Facebook o Instagram. E facciamo una regia del nostro trailer-resoconto. Le nostre immagini diventano ciò che vorremmo guardassero gli altri. Le fotografie scattate con i cellulari modificano il reale attraverso app di ogni tipo. Si perde un po’ la funzione Barthiana della fotografia!”.   

D. Lo strumento si presta alla finzione, nel senso che possiamo spacciarci per quel che non siamo, descriverci in modo supponente: siamo in presenza di una nuova etica nei rapporti interpersonali? 

R. ”Si. I profili Facebook e Instagram oggi modificano il reale. Cosa si nasconde tra l’individuo e il nostro doppio? Ovvero l’avatar che ognuno ha scelto per ‘vivere’ il mondo dei social? Si tratta di un mondo parallelo dove ognuno può avere un'auto di lusso, un attico da sogno e volare su un jet privato!”.    

D. Lei dice: Spegni il cellulare, accendi la mente: è ancora possibile? 

R. “Assolutamente sì. Questo spettacolo fa riflettere sull’utilizzo consapevole della tecnologia. Essere moderni non significa non possedere uno smartphone, ma decidere quando spegnerlo!”.   

D. E mette a confronto due generazioni, padri e figli: il loro approccio a web e rete è diverso? 

R. “È cambiato il nostro modo di comunicare. E se per i nativi digitali lo smartphone è un'appendice, di certo gli adulti hanno riscoperto un nuovo modo di esprimersi soprattutto con i messaggi. Testi brevi, niente punteggiatura e confidenza con tutti. Mi viene in mente una battuta di Gioele Dix: ‘Ti scrive il commercialista. Confermo appuntamento per pagare acconto Irpef, un abbraccio! Se vengo lì ti stritolo, altro che abbraccio!’ E poi whatsapp offre l'opportunità di una comunicazione semplice, immediata, non condivisibile. Ma cosa succederebbe se ognuno leggesse tutti i messaggi dell'altro?”.   

D. Lei parla di un confine da non superare, in cui si sconfina dal reale al virtuale, con conseguenze non immaginabili, e si intravede l’autoreclusione dei ragazzi giapponesi, gli hikikomori: esiste tale confine e come individuarlo? 

R. “Non bisogna confondere reale con virtuale. L’omologazione della rete, con l’unicità della specie. Perché proprio nella freddezza calcolatrice della tecnologia sta la differenza. Pensiamo all’intelligenza artificiale. I robot intelligenti mancano di creatività: queste tecnologie sono capaci di eseguire attività creative ma non sono in grado di programmare sistemi originali. Mancano di empatia. Un esempio? Pensiamo ad un sistema ideato con lo scopo di sterminare il cancro. In mancanza di soluzioni definitive un robot potrebbe optare per eliminazione degli individui geneticamente portati alla malattia per sterminarla”.
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