Altamura. Centro storico, quest’illustre dimenticato…


ROBERTO BERLOCO
- ALTAMURA. Sempre da qui. Si, è sempre dal Centro storico che si comincia quando si vuole narrare d’una città. Al Centro storico si mira, come ad un orizzonte da cartolina, quando si cerca il principio genetico d’una entità urbana, il motivo stesso della sua esistenza. Al Centro storico si pensa sovente, se l’amore per la propria patria civica rasenta l’ossessione delle grandi passioni, quelle che tanto pagano in termini di ristoro d’anima.

Ed è al Centro storico che, nel caso di Altamura, si tiene ancor più, quando, di mezzo, vi sia il tema dello Stupor Mundi, vale a dire quel tale Federico del quale, presso l’intera comunità e ormai a prescindere dalla fascia d’istruzione o di censo sociale, s’ha presente e si vuole sempre vitale in memoria il legame di fondo con le prime pietre che, più di sette secoli fa, qui furono poste.

Ora, fosse stata l’aria salubre che, a quei tempi, privi di emissioni da gas di scarico e altro putridume ancora, doveva respirarsi anche entro i resti delle due cinte murarie; fosse stata la sua speciale predilezione per la Puglia, che lo portava a preferirne i luoghi che più lo ispirassero e questo, per quel che i suoi occhi videro, doveva rientrarci a pieno diritto; fosse stata quella certa sua predisposizione ad una visione universalistica che, di riflesso, doveva essere anche storica e, pertanto, coinvolgere anche ciò ch’era stato per rendere più sensato ciò che, sotto il suo imperio, avveniva e doveva ancora avvenire; insomma, qualunque fosse stata la ragione o l’insieme di ragioni che spinsero l’Hohenstaufen a puntar qui il proprio volere d’ottenere un borgo da un insieme di ruderi abbandonati, un fatto risalta certo: alla fine, ne nacque un’urbanità che, di quel fecondante impulso originario, seppe fare portentoso frutto, spandendosi fisicamente, demograficamente, economicamente, senza mai sosta e fino ai giorni d’oggi.

E allora, se questa è la premessa, cosa mai potrebbe essere il Centro storico altamurano se non quello spazio dove la memoria della storia che fu, trovi privilegio al podio più alto nel sapere che sarà di chi verrà? Cosa mai potrebbe rappresentare l’anima antica della Città del Pane se non il segno imperituro d’una stirpe destinata a spiegare innanzi a sé solo fausti progressi, sottratti al campo dell’utopia e portati in quello della realtà in grazia dell’abbondanza di quella riconosciuta qualità che va sotto il nome di laboriosità? Cosa mai dovrebbe incarnare il cuore fisico del paese se non il cuore stesso della comunità che, oggi, ne occupa ogni anfratto e, nel tempo, il cuore ancora pulsante di uomini che resero lustro al nome di Altamura con l’eccellenza delle loro arti, del loro genio o del loro coraggio?

D’altronde, sembra addirittura una tradizione, consolidata nel tempo, che tutti - o quasi - gli Amministratori locali succedutisi con delega al Centro storico, manifestino l’intendimento di valorizzarlo già all’atto del loro insediamento. Quasi sempre, nelle loro parole, nel loro atteggiarsi, si legge l’entusiasmo della novità, l’eccitazione della scoperta, l’ardore che si produce all’impatto d’un mistero appena dischiuso. Senza parlare del puntuale cenno, con tanta energia e voce urlata, durante le campagne elettorali per le Comunali, e, dall’inizio del secolo, ne sono passate una mezza dozzina. Un rito. Propiziatorio, doveroso o puramente formale che sia, tiene poca importanza, poiché, con l’eccezione d’alcuni sforzi di volontà che, nella migliore delle ipotesi, hanno finito per circoscriversi ad epiloghi limitati e mirati, l’area più risalente del paese rimane fedele al sentiero del sommo degrado. 

Detto in tutta onestà: le migliorie visibili esternamente, quelle che investono palazzi, manufatti o architetture, sono dovute principalmente agli sforzi dei privati. E, limitate come sono all’orizzonte stretto delle singole proprietà, completano il senso di caotica disorganicità che è uno degli altri tratti salienti dell’attuale stato del Centro storico. Di esempi potrebbero farsene già vagolando, qua e là, intorno al baricentro della Chiesa madre, per vederli poi moltiplicarsi man mano che si vada verso quella ch’era la cinta muraria della primigenia acropoli. Tutte testimonianze d’un contrasto che stride violentemente con l’immagine gloriosa che la storia dell’urbe federiciana è in grado di tramandare attraverso l’eco delle sue medievali origini e delle gesta di quei suoi eroi che, tra piazze e viuzze, solo duecentoventicinque anni fa o appena quasi, si batterono per difendere il sacro Albero della Libertà.

Così, se pur sia vero che, traversando l’arco che congiunge il Duomo ai locali di quella che fu una delle prime Università degli Studi del Regno di Napoli, e camminando ancora oltre, l’atmosfera confermi del tutto l’impatto delle sensazioni dettate dalla visione della maestosa facciata della Cattedrale, lo è altrettanto che, dopo certe decine di metri di via Onorato Candiota, questa stessa passi dal bel basolato, uniforme e resistente, ad un consumato e rattoppato asfalto, il simbolo di una modernità che ha il suo daffare sbrigativo e senza riguardo alcuno ai canoni della bellezza o della coerenza alla tradizione. E continui così, fino a via Solofrano, sia in salita che in discesa, con i rivoli delle operazioni di traccia dovute agli interventi di manutenzione sotto superficie, in evidente posa qua e là, come per completare la desolazione del quadro e far di questo un ricordo da non cancellare. Alla medesima guisa, ancora nei paraggi e puntando a caso, può chiamare a sé il claustro dedicato a Carlo De Venuto, uno di quei Martiri che si fanno risalire alla resistenza civica del 1799, dei quali tanto si decanta ad ogni Maggio altamurano: all’attesa di un ambiente esterno prospiciente che onori a dovere il suo sacrificio di sangue, si sostituisce immediatamente l’allucinazione di una pavimentazione fatta di chiazze di bitume o qualcosa di simile, sulle quali i privati che ne abbiano interesse, anche volendo e mettendo mano alla propria di tasca, non potrebbero intervenire, in quanto demanio pubblico sul quale solamente l’autorità municipale possa e debba.

Che magnifica piazza sarebbe stata quella intitolata alla Madonna dei Martiri, tanto antica, raccolta, quasi una sorta di reminiscenza di certi palcoscenici teatrali all’aperto d’epoca elisabettiana, se solo, con un’adeguata ristrutturazione e sotto la direzione delle giuste maestranze, si fosse badato a riportare ai fasti della dignità quella cappellina che sta di sfondo alla chiesa che s’avanza fino allo spazio centrale? L’arcano delle iscrizioni in latino che campeggiano sulla sua facciata, o l’enigma connesso a quei due santi immobili che paiono il frutto di un’unica gemmazione, avrebbero trovato così il risalto dovuto e la più legittima delle curiosità avrebbe alimentato l’ammirazione per il patrimonio pubblico della città.

Andando, poi, verso Porta Foggiali, che dire di via Matteo Cristiani - Difensore di Altamura durante i moti del 1648, recita più o meno la targa affissa al suo inizio - una strada dalla pavimentazione in asfalto, per giunta consunto, sulla quale s’affacciano edifici privati vetusti di secoli, qualcuno veramente ben restaurato, come nel caso di quello che cade ad angolo con il claustro intitolato al patriota Luigi De Laurentiis? Che dire del contrasto che ne viene e che potrà essere oggetto di meraviglia sdegnata da parte del turista, al quale non sfuggirà il pannello che, a cura del Club Federiciano, del triumviro parla con forbito dettaglio? Cosa mai potrebbe venire da pensare al forestiero il quale si ritrovi a combattere tra l’ammirazione verso il gentiluomo d’un tempo e l’amara constatazione dello stato dell’arteria che scorre lì a fianco, qua e là coperta da pietose toppe rigorosamente di asfalto?

Basterà a placare l’ira dei cittadini autentici, dei più coscienti o di coloro che, per istinto proprio o per formazione, più tengano al decoro della città, il dato delle opere di rifacimento che, proprio poco oltre via Cristiani, nell’area di piazza don Minzoni, e poi lungo via Santa Caterina o in via Già Corte d’Appello, si prolungano oramai da oltre un anno, in nome di un articolato piano di belle intenzioni a vantaggio del Centro storico, ma che poi, di questo, non fanno che languirne solo determinati tratti?

Vi sono odori, sapori, colori, suoni che appartengono solo a questa interna porzione di paese e fanno parte di ere scomparse, spesso nascoste anche dalla memoria scritta. Essi sono ancora lì, per volere della fortuna o per giuoco del fato, a ricordare ai discendenti che sappiano attenderli quanto in carne reale fossero coloro che li precedettero nella marcia della vita e delle battaglie per i diritti.

E, poi … poi c’è qualcosa d’inafferrabile, qualcosa che nessuna narrazione potrebbe davvero rappresentare, fino a che attenga a sensazioni che sono e saranno proprie solamente di ciascun individuo, irripetibili per un altro, per loro natura imperscrutabili a qualunque estraneo. E’ l’imprevedibile magia di un attimo ad aprirne il sipario, ad accendere le luci della scena sopra un piacere tutto della mente, imponente eppur sfuggente. Quando, d’un colpo, l’istante di un trapassato mistero si fa vivo sapore d’un momento e tutto torna, alla maniera di una pellicola cinematografica che corra rapida fino all’estremità opposta, lasciando agli occhi della coscienza appena un istante per guardar ciò che fu, prima di riavvolgersi con la stessa fretta e farsi subito dimenticare.

Il Centro storico. Questo cuore che batte ancora, ma infermo, dimenticato, privato delle attenzioni e delle cure che avrebbero dovuto essergli assicurate con la medesima solerzia che si tributa ad un paziente illustre. Illustre perché dalle selci dei suoi lastrichi al tufo di edifici, claustri o chiese, tutto, in esso, racconta di un passato ch’è stato un presente illustre, un tempo privo delle distrazioni di oggidì e ricco di ideali o anche, più semplicemente, di santa fede e tanta provvidenziale, ingenua, vigorosa speranza.

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