La Russia, le Russie... Intervista alla slavista Laura Salmon


FRANCESCO GRECO
. ROMA – “Vivere in Unione Sovietica era tremendamente faticoso, ma altrettanto gratificante”. Parafrasando John Reed, potremmo dire: I dieci anni che sconvolsero il mondo. Declinati in chiave narrativa e soggettiva (ma non solo) da Laura Salmon, slavista, traduttrice, ordinario di Lingua e Letteratura Russa all’Università di Genova. Se il caso governa la vita (Goethe), la professoressa era al momento giusto nel posto giusto: ha vissuto il tramonto dell’URSS brezhneviana, la perestrojka di Gorbaciov e Eltsin, la scalata del capitalismo occidentale agli asset strategici della Russia, la smania di ricchezza che ha contagiato i russi creando i cosiddetti oligarchi, la disperazione del popolo, l’anarchia culturale. La professoressa si è ritrovata un pomeriggio del giugno 1987 a Leningrado in abito di raso grigio perla, accudita dalla futura suocera, per sposare un ebreo russo. Erano ormai sette anni che frequentava l’URSS sognando di diventare una sovietica.

Ricordi affettivi raccolti, oggi, dopo 30 anni, nel memoir “C’era una volta l’URSS. Storia di un amore”, Sandro Teti Editore, Roma 2024, pp. 280, euro 20, presentato, sere fa, a Roma, alla “Casa delle Letterature” (Piazza dell’Orologio, fra il Pantheon e Piazza Navona) davanti a un pubblico numeroso e attento.

C’erano, fra gli altri, la giornalista italo-russa Tatiana Santi, l’ex ambasciatore Alberto Bradanini (Belgio, Venezuela, Norvegia, lungo soggiorno in Cina), la professoressa della “Sapienza” Rita Giuliani.

DOMANDA: Prima di andare in Russia (URSS) la prima volta, aveva un’idea simile a quella di tutti noi occidentali, come ha detto stasera, nata più dagli stereotipi che dalla lettura dei classici: che Paese ha trovato, quali le prime impressioni? Ha appena parlato anche di imprinting, di Leningrado “luogo dell’anima”…

RISPOSTA: Durante i primi viaggi in URSS – tra il 1979 e l’inizio della perestrojka-katastrojka, a metà anni Ottanta – ho capito in modo drastico che tutte le idee sulla Russia che avevo mutuato in Occidente erano fondamentalmente false.

I classici russi, ahimè, potevano ben poco contro la veemenza degli stereotipi politici. Ho quindi cercato d’imparare a non sostituire gli stereotipi che avevo con altre idee affrettate, d’imparare a capire ed amare quella gente straordinaria e la loro millenaria civiltà, di meritare il diritto etico a un’opinione fondata sull’esperienza diretta, continuativa e approfondita.

Ho vinto la mia superbia di occidentale, diventando una di loro. Quanto a Leningrado, era inizialmente il mio “sogno letterario”: inseguivo la Pietroburgo di Gogol’, Tolstoj e (soprattutto) Dostoevskij.

Ho trovato ben più di quel che mi aspettavo. È stato amore a prima vista, l’amore della mia vita da quarantacinque anni. Tuttora, Pietroburgo resta la “mia città”, un luogo in cui vorrei essere sempre e per sempre. È la città più bella del mondo.

D. Relativizzata anche l’icona del russo cupo e triste, al contrario, alla tv commedie leggere e ironiche: i russi (“più simili a persone che a schemi”) ridono? 

R. Le generalizzazioni sono sempre rischiose e spesso ingiuste, ma sull’umorismo russo (a cui ho dedicato un altro libro) mi sento di generalizzare, perché è una caratteristica del Paese che non ha eguali in Occidente: si tratta di quel “riso tra le lacrime” che – spiega Pirandello – è l’esatto opposto della comicità e che raramente ricorre persino all’ironia, mai al sarcasmo.

Anche i capolavori del cinema sovietico non sono “comici”, ma per lo più squisitamente umoristici. L’umorismo dei russi (che è anche molto ebraico) è la capacità di sorridere del proprio dolore e di non deridere mai gli altri con superbia. Per questo, nel mio memoir, quasi tutte le citazioni sono da Dovlatov, straordinario maestro del «sorriso della ragione».

D. Lei ha detto anche che i sovietici non avevano l’incubo del possesso né del successo: quindi l’oligarca è antropologicamente distante dal mood sovietico o anche da quello russo? 

R. Non so cosa intenda per “mood”, ma provo a intuire. I miliardari russi post-sovietici, detti “oligarchi”, nel loro aspetto triviale e farsesco, sono figure decisamente occidentali, de facto “corpi estranei” non solo al mondo sovietico, ma anche alla civiltà russa, nella quale esibizionismo e snobismo sono stati importati solo qualche secolo fa. In fondo, tutti i classici russi parlano sempre e solo di quello: dell’impatto della visione del mondo occidentale sulla natura russa, di questo fatale, euforico e lacerante incontro-scontro della Russia con “l’Europa”.

D. La Russia non vuole l’Italia al tavolo della pace: il momento più basso toccato da una classe politica nostalgica, oltre che di esigui strumenti culturali prima che politici. Capiranno la lezione? 

R. Se lei parla del conflitto in corso tra Russia e NATO, non mi risulta sia in discussione alcun tavolo di pace. In Russia se ne parla come di una eventualità astratta. Ma, soprattutto, mi è poco chiaro il ruolo ipotetico dell’Italia a un eventuale tavolo di trattative: basti pensare alle responsabilità storiche italiane nei confronti di russi e ucraini, nonché alla posizione dell’Italia nell’Alleanza Atlantica. Specifico che non sono un politologo, non mi occupo di politica e (come tutti) non so affatto quando e come finirà il conflitto. So solo che finirà, come tutte le guerre, prima o poi. Se ci saranno “lezioni” utili per qualcuno, non so dirlo: tutto dipende dal grado di autonomia che verrà lasciato all’Italia dai suoi più rilevanti alleati. A livello intuitivo, posso aggiungere che – quando verrà il momento della pace – se il governo russo, da un lato, avrà il dovere in quanto istituzione di non dimenticare chi stava con chi, la gente, dall’altro, riprenderà ad amare l’Italia di quell’amore viscerale che da secoli permea tutta la cultura russa.