Storia di Sol, l’altra metà della Resistenza
FRANCESCO GRECO - Soledad Mentruit, detta Sol, vent’anni, il suo mito è Greta Garbo, ha visto qualcosa che avrebbe fatto meglio a non vedere: uno stupro e un omicidio in un giorno di neve commessi da un repubblicano (“di bastardi ce ne sono in entrambe le fazioni, tra i fascisti ma anche fra i nostri…)”.
Così la sua vita e quella della famiglia (“di rossi”) non sarà più la stessa. Il padre si è eclissato a Tolosa (potrebbe essere arrestato per omicidio), i due fratelli Salvador e Ton, allevano e vendono bestiame in una fattoria ambita da una coppia di fascisti del paese (“Avete perso la guerra”), Dolors e il marito carabinero, ansiosi di comprarsela per un boccon di pane, la madre si ammazza di lavoro.
Spagna contadina, anni Quaranta dell’altro secolo, siamo nei villaggi attorno ai Pirenei, tessuto sociale bigotto e lacerato, sensi all’erta, non si sa di chi fidarsi, si cerca di sopravvivere in tutti i modi in attesa che passi la bufera.
E’ l’intrigante incipit de “La Pasadora”, della scrittrice spagnola Laia Perearnau (Barcellona, 1972), Giunti, Editore, Milano 2024, pp. 412, euro 19, collana Varia/Narrazioni, uscito l’8 aprile e che ha tutta la postura del best-seller, anche perché sono 80 anni dalla fine dell’ultima tragedia epocale, mentre l’ombra di un relativismo parossistico e parodistico apre opzioni inquietanti.
Cifra neorealistica, prosa scarna e fluida che dona tensione emotiva alla storia, architettura poderosa, psicologia dei personaggi ben strutturata. Questo si chiama scrivere, senza sovrapporre al plot il turgore delle militanze a ogni capoverso.
Sol fisicamente non si piace (i capelli lisci e scuri e il corpo “poco femminile”) e il fratello Salvador arrotonda col contrabbando. E dove mai potrebbe nascondere per un pò la sorella se non in un villaggio vicino, dove in una locanda i contrabbandieri che si arricchiscono con la guerra sono stanziati?
L’arrivo è traumatico, il capo contrabbandiere è rozzo e volgare, pensa che la ragazza porterà grane. Si scopre poi che oltre al contrabbando fanno anche transitare ebrei desiderosi di mettersi al sicuro.
Due coppie imparentate fra di loro (una viene dalla Polonia, l’altra dalla Germania) si scaldano davanti al fuoco, quando Sol vede i loro piedi in cancrena e provvede a salvarli da sicura amputazione, rifiutando poi il dono con cui essi intendono sdebitarsi.
Elemento, come si dice, semanticamente affollato, che introduce alla svolta nella sua vita. Che ha il valore di un’iniziazione, la gemmazione di una coscienza civile e politica. Che matura anche con i racconti di Marta (la ragazzina dalle belle trecce) mentre la nuova arrivata prepara piatti, lava pentole, cerca il cibo da mettere in tavola, scarso come in tutte le guerre.
A Sol dunque non interessa tanto la dimensione privata (che pure appare con l’amore con un ragazzo misterioso), ma quella che cresce dentro un contesto storico di cui poco sapeva.
E di cui non diciamo nulla per non togliere al lettore l’emozione di scoprirlo capitolo dopo capitolo attraverso una prosa colma di luce e di speranza sul ruolo della donna avuto a quell’epoca e che potrebbe avere oggi.
E’ bello, infine, che questo romanzo esca a pochi giorni dal 25 aprile, a 80 anni dalla fine dell’ultima guerra (grandi festeggiamenti a Mosca il 9 maggio) e dentro il gorgo cupo di un relativismo che confonde le menti con narrazioni intellettualmente disoneste, insudicia tutto: la Resistenza, gli eroismi, i martiri che si sono sacrificati per darci la libertà, spesso con parallelismi deliranti e spudorati (e non casuali).
Sol e Laia ci dicono, al contrario, che le coscienze devono essere sempre sveglie, perché nulla è mai conquistato in modo definitivo, e deve invece essere difeso ogni giorno con coraggio e senza esitazioni.
Così la sua vita e quella della famiglia (“di rossi”) non sarà più la stessa. Il padre si è eclissato a Tolosa (potrebbe essere arrestato per omicidio), i due fratelli Salvador e Ton, allevano e vendono bestiame in una fattoria ambita da una coppia di fascisti del paese (“Avete perso la guerra”), Dolors e il marito carabinero, ansiosi di comprarsela per un boccon di pane, la madre si ammazza di lavoro.
Spagna contadina, anni Quaranta dell’altro secolo, siamo nei villaggi attorno ai Pirenei, tessuto sociale bigotto e lacerato, sensi all’erta, non si sa di chi fidarsi, si cerca di sopravvivere in tutti i modi in attesa che passi la bufera.
E’ l’intrigante incipit de “La Pasadora”, della scrittrice spagnola Laia Perearnau (Barcellona, 1972), Giunti, Editore, Milano 2024, pp. 412, euro 19, collana Varia/Narrazioni, uscito l’8 aprile e che ha tutta la postura del best-seller, anche perché sono 80 anni dalla fine dell’ultima tragedia epocale, mentre l’ombra di un relativismo parossistico e parodistico apre opzioni inquietanti.
Cifra neorealistica, prosa scarna e fluida che dona tensione emotiva alla storia, architettura poderosa, psicologia dei personaggi ben strutturata. Questo si chiama scrivere, senza sovrapporre al plot il turgore delle militanze a ogni capoverso.
Sol fisicamente non si piace (i capelli lisci e scuri e il corpo “poco femminile”) e il fratello Salvador arrotonda col contrabbando. E dove mai potrebbe nascondere per un pò la sorella se non in un villaggio vicino, dove in una locanda i contrabbandieri che si arricchiscono con la guerra sono stanziati?
L’arrivo è traumatico, il capo contrabbandiere è rozzo e volgare, pensa che la ragazza porterà grane. Si scopre poi che oltre al contrabbando fanno anche transitare ebrei desiderosi di mettersi al sicuro.
Due coppie imparentate fra di loro (una viene dalla Polonia, l’altra dalla Germania) si scaldano davanti al fuoco, quando Sol vede i loro piedi in cancrena e provvede a salvarli da sicura amputazione, rifiutando poi il dono con cui essi intendono sdebitarsi.
Elemento, come si dice, semanticamente affollato, che introduce alla svolta nella sua vita. Che ha il valore di un’iniziazione, la gemmazione di una coscienza civile e politica. Che matura anche con i racconti di Marta (la ragazzina dalle belle trecce) mentre la nuova arrivata prepara piatti, lava pentole, cerca il cibo da mettere in tavola, scarso come in tutte le guerre.
A Sol dunque non interessa tanto la dimensione privata (che pure appare con l’amore con un ragazzo misterioso), ma quella che cresce dentro un contesto storico di cui poco sapeva.
E di cui non diciamo nulla per non togliere al lettore l’emozione di scoprirlo capitolo dopo capitolo attraverso una prosa colma di luce e di speranza sul ruolo della donna avuto a quell’epoca e che potrebbe avere oggi.
E’ bello, infine, che questo romanzo esca a pochi giorni dal 25 aprile, a 80 anni dalla fine dell’ultima guerra (grandi festeggiamenti a Mosca il 9 maggio) e dentro il gorgo cupo di un relativismo che confonde le menti con narrazioni intellettualmente disoneste, insudicia tutto: la Resistenza, gli eroismi, i martiri che si sono sacrificati per darci la libertà, spesso con parallelismi deliranti e spudorati (e non casuali).
Sol e Laia ci dicono, al contrario, che le coscienze devono essere sempre sveglie, perché nulla è mai conquistato in modo definitivo, e deve invece essere difeso ogni giorno con coraggio e senza esitazioni.