La Lezione ininterrotta di Aldo Moro ai giovani
NICOLA TRIGGIANI* – In occasione del 47° anniversario della morte di Aldo Moro, il 9 maggio 2025, nella Biblioteca comunale “Giuseppe D’Addosio” di Capurso si è svolto il Convegno “Aldo Moro: una prospettiva per l’Europa e per i giovani”, organizzato dal CEDICLO (Centro interdipartimentale di ricerca “Studi su diritti e culture latine, prelatine ed orientali”) dell’Università di Bari e dall’amministrazione comunale di Capurso, nell’ambito del ricco cartellone di eventi culturali della primavera 2025.
Dopo i saluti istituzionali del Sindaco Michele Laricchia, sono intervenuti, nell’ordine: Sebastiano Tafaro, Professore onorario dell’Università di Bari, che ha portato, tra l’altro, la sua testimonianza diretta come studente dei corsi tenuti a Bari da Moro nella Facoltà di Giurisprudenza; il sottoscritto, Professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Bari; Pino Mariani, Avvocato e appassionato studioso del pensiero di Moro; Michele Indellicato, Professore di Filosofia morale nell’Università di Bari e autore del volume “L’umanesimo etico-giuridico nel pensiero di Aldo Moro”, inserito nella Collana del Dipartimento Jonico dell’Università di Bari (Cacucci Editore), volume la cui presentazione ha offerto lo spunto per la discussione sull’attualità del pensiero moroteo. A moderare i lavori, il giornalista Vito Mirizzi, collaboratore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
Purtroppo per molto tempo, e per molti versi ancora adesso, il “caso Moro”, la ricerca (peraltro assolutamente doverosa) della verità sulla strage di Via Fani, il rapimento di Aldo Moro, la sua prigionìa per quei lunghissimi 55 giorni, e poi il suo omicidio, hanno finito per offuscare, per lasciare in ombra la grandezza del pensiero politico e giuridico di Moro e, soprattutto, la vastità della sua dimensione umana.
Moro aveva un rapporto straordinario con i giovani in generale – verso i quali era sempre disponibile all’ascolto – e con i suoi studenti in particolare, prima all’Università di Bari, dove ha insegnato per molti anni Filosofia del diritto e, fino al 1963, Diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza, e poi all’Università di Roma, dove ha insegnato Istituzioni di diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze Politiche, anche se, come disse lo stesso Moro durante una visita a Bari il 14 dicembre 1975, per ricevere il sigillo d’oro in occasione del 50° anniversario della fondazione della nostra Università, il suo distacco dall’Università di Bari fu un distacco involontario. “Io lego completamente la mia vita” – disse allora Moro – “alla vita di questa Università”, a testimonianza del rapporto profondo e duraturo che intercorse tra Moro e l’Ateneo barese, che è stato a lui intitolato soltanto 30 anni dopo la sua morte.
Al rapporto tra Moro e i giovani Michele Indellicato ha dedicato un intenso capitolo del suo libro, dove, tra l’altro, ricorda le tesi di laurea macchiate di sangue rinvenute nell’automobile il giorno del suo rapimento in via Fani, il 16 marzo 1978, a riprova di questo legame mai interrotto con i giovani. Giuliano Vassalli ha scritto che quelle tesi, rimaste abbandonate nell’auto all’inizio di quella che avrebbe dovuto essere una pur decisiva giornata della sua attività politica al servizio del Paese – era previsto, infatti, il discorso programmatico alla Camera per l’insediamento del nuovo Governo Andreotti –, sono “il simbolo di questo impegno supremo e uniscono idealmente, e per sempre, Aldo Moro a tutti i cultori di diritto penale e non solo, a tutti gli studiosi di diritto e a tutta l’Università italiana”.
Moro mantenne sempre questo rapporto speciale con i giovani, anche quando venne chiamato a ricoprire delicati incarichi di Governo, e persino quello di Presidente del Consiglio.
Attraverso le testimonianze dei protagonisti di allora, emerge il ritratto di un uomo mite, dotato di una profondissima umanità, aperto al dialogo e al confronto, interessato soprattutto a comprendere, senza giudicare, le ragioni di un malessere diffuso fra i giovani, durante gli anni della contestazione, e in particolare fra le diverse anime in cui trovava espressione la presenza dei cattolici nelle università. Riteneva che la politica dovesse, con intelligenza, comprendere le ragioni della profonda insoddisfazione e delle rivendicazioni dei giovani e cercare di dare delle risposte. Per questo, tutte le volte che ne aveva occasione, partecipava a innumerevoli incontri e conferenze con i giovani, per cogliere il nuovo che avanzava nella società.
Già nell’agosto del 1944 evidenziava che, per affrontare l’evoluzione della società, comprendere il presente e proiettarsi nel futuro, era indispensabile il dialogo con i giovani e l’attenzione verso di essi. Possiamo dire che proprio l’attenzione per i giovani sia in ambito accademico che politico – come sottolinea Indellicato – sia stata il filo conduttore di tutta la sua vita. Intellettuale, professore universitario, politico, uomo di Stato: Moro è stato tutto questo e non si possono separare i diversi profili della sua attività, che vengono tutti lumeggiati dalla sua grande umanità.
Un messaggio della moglie di Moro, la signora Eleonora, indirizzato il 23 settembre 1978 – giorno in cui Moro avrebbe compiuto 62 anni – a coloro che avevano partecipato al dolore della famiglia conferma, se ce ne fosse bisogno, che “il grande amore di Aldo Moro sono stati i bambini, i ragazzi e i giovani, che la sua più grande gioia era stare in mezzo a loro, che lo scopo della sua vita era costruire per loro una società più umana, in cui ognuno potesse trovare lo spazio per essere se stesso”.
La sua autentica vocazione è stata, insomma, quella di essere un educatore, un “educatore globale”, come lo ha efficacemente definito il suo allievo e assistente Francesco Tritto nella introduzione alle “Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale tenute nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma” nell’anno accademico 1975-76, da lui amorevolmente raccolte e curate e pubblicate trenta anni dopo, nel 2005 (Cacucci Editore).
Persino nei giorni più drammatici della sua prigionìa Moro ricorda affettuosamente i suoi studenti e in una delle lettere (mai recuperate e rinvenute in fotocopia nel covo milanese delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso solo il 9 ottobre 1990) chiede alla moglie Eleonora di pregare il suo assistente Saverio Fortuna di portare “ai cari studenti il saluto affettuoso e il rammarico di non poter andare oltre nel corso”.
In precedenza, mentre si vociferava di una sua possibile elezione alla Presidenza della Repubblica, da molti data per scontata, e che invece lo vedeva scettico, aveva avuto modo di manifestare ai suoi assistenti la preoccupazione – laddove davvero fosse stato eletto – di non poter più tenere le lezioni all’Università.
Come pure, alla fine del 1975, aveva manifestato tutta la sua contrarietà alle proposte di modifica dell’ordinamento universitario – che sarebbero state poi approvate dopo la sua morte, negli anni ‘80 – che prevedevano l’incompatibilità tra la carica di parlamentare, o di alcune attività professionali, e la docenza universitaria. Non riteneva giusto, infatti, privare gli studenti dell’Università dell’apporto importante che può venire da un’esperienza direttamente collegata con la realtà sociale e con la quotidianità della vita, sempre che il docente facesse fronte compiutamente al proprio dovere, come ha sempre fatto lui (…che, da capo del Governo, fissava il Consiglio dei Ministri non alle ore 9, come accadeva di consueto in precedenza, ma alle 12, per poter tenere prima la lezione all’Università e avere poi la possibilità di intrattenersi a lungo con gli studenti).
E a chi voleva avvicinarsi alla politica e gli chiedeva un consiglio diceva: “Mi raccomando, dovete prima formarvi professionalmente, poi quando la politica vi chiamerà, anche se diventerà la parte più impegnativa della vostra attività, potrete anche ridurre la professione, ma non abbandonatela mai”. Anche questo credo sia un insegnamento importante: i “politici di professione” spesso perdono il contatto con la realtà, con la quotidianità, con le esigenze reali del Paese.
Le sue affollatissime lezioni di Filosofia del diritto e di Diritto penale hanno rappresentato “un esempio, edificante, di intima compenetrazione delle esigenze della dommatica e dell’astrazione teoretica con le esigenze dell’attenzione e della sensibilità verso i problemi indotti dall’evoluzione politica e sociale”, come ebbe a dire Lugi Ambrosi, allora Rettore dell’Università di Bari, nella relazione introduttiva al Convegno Internazionale “Il pensiero e l’opera di Aldo Moro”, tenutosi a Bari il 16 e 17 giugno 1979 (i cui atti sono stati raccolti per i tipi della Cacucci nell’omonimo volume a cura di Francesco Mastroberti e Antonio Uricchio nel 2016, in occasione del centenario della nascita del grande statista pugliese).
Non alzava mai la voce, cercava sempre di capire, non liquidava gli studenti con giudizi sommari: apprezzamento, rispetto, affetto ed amicizia nei loro confronti sono stati i sentimenti che hanno dominato la sua esperienza di docente.
Emblematico è un suo scritto sui “Problemi dell’Università” in cui osserva: “Essenziale è che il giovane senta chi insegna all’Università come persona che gli vuol bene, lo comprende, è pronto ad aiutarlo; come uomo che apprezza la sua giovinezza e ripone in essa la sua fiducia; che si senta amato e preso sul serio”. Mentre in un altro suo discorso rilevava: “Veramente l’Università è un piccolo mondo nel quale completamente quello grande si riflette. Se volete che l’Università sia una cosa seria, che non sappia di vuoto, di chiuso, di antico, mettetela al ritmo agile, anche se irregolare della vita. Fate che la vita vi pulsi dentro, che la società con i suoi interrogativi vi si rifletta, che i problemi della difficile convivenza umana vi siano compresi ed affrontati. Fate che questa piccola società sia un ponte verso la vita”.
“Il momento educativo e formativo dell’insegnamento universitario di Aldo Moro” – osserva Ambrosi – “veniva così a risaltare in maniera piena e completa, contribuendo dalla cattedra, di cui era diventato titolare ancora giovanissimo, ad inculcare nei giovani la passione ragionata nei valori della democrazia e della libertà, presidio insostituibile del nuovo Stato sorto dalle rovine del fascismo”. Nelle fonti filosofiche e culturali del concetto di libertà è possibile rinvenire il filone ideale che ha alimentato, per l’intero arco della sua vita politica e della sua attività accademica, il rapporto tra Aldo Moro e i giovani, “ai quali egli si rivolgeva in tutte le occasioni, oltre che dalla cattedra universitaria, indicando ad essi, sempre e con appassionata fedeltà, il valore etico della libertà, dal quale soltanto potevano trarre possibilità autentica e vitale di autonomia, di affermazione, di contestazione e di partecipazione”.
È soprattutto sul terreno della “partecipazione”, cioè della presenza attiva e consapevole nella società civile di ogni persona in modo autonomo e libero, nel contesto dell’ordinato e armonico gioco democratico, che Aldo Moro invitava i giovani a temprarsi e a misurare la saldezza delle loro idealità e delle loro aspirazioni, convinto che la “democrazia sostanziale” aveva modo di affermarsi e consolidarsi nel tessuto politico e sociale del Paese solo per effetto di un continuo accrescimento della partecipazione umana alla società.
In questo ritengo sia davvero attualissimo il pensiero e il messaggio di Aldo Moro, e credo sia necessario riflettere molto sulla necessità di un impegno di tutti, e dei giovani in particolare, nell’attività politica, a tutti i livelli, e soprattutto cercare di far comprendere l’importanza della partecipazione popolare alla vita politica, a cominciare, ma non solo, dal voto nelle varie competizioni elettorali: oggi sappiamo tutti che purtroppo il “primo partito” è quello dell’astensione, del non-voto. Non è un problema solo italiano, ma da noi è fortemente avvertito, c’è una forte disaffezione verso la politica perché i partiti, i movimenti politici, il Parlamento, il Governo vengono spesso percepiti come molto distanti dalle reali esigenze dei cittadini.
Assieme alla partecipazione, Moro indicava ai giovani il valore democratico che doveva permeare intrinsecamente la Scuola, la vera scuola che egli identificava nella comunità aperta e degna di una democrazia, ed anzi espressione ed impulso essa stessa ad una vita democratica completa, in termini di adeguata risposta alle vocazioni personali ed alle esigenze sociali.
Dunque, l’importanza fondamentale dell’istruzione. Bisogna essere consapevoli che il costo sopportato dallo Stato per istruire un ragazzo non va inteso come spesa, ma come progresso, perché senza scuola non vi sono pace, progresso e benessere. E invece constatiamo da molti anni che, quando c’è da tagliare la spesa pubblica, le prime voci che sono interessate dai tagli sono la scuola, l’università, la cultura.
È opportuno ricordare che fu Aldo Moro, da Ministro della Pubblica istruzione, a inserire, nel 1958, dopo un lungo e travagliato iter, l’insegnamento dell’Educazione civica nelle scuole. E Moro era giustamente fiero di essere riuscito in quell’intento, che riteneva importante non solo ai fini della modernizzazione dell’istruzione pubblica, ma anche e soprattutto affinché i giovani potessero recepire sin dall’età scolastica il significato dell’appartenenza e della partecipazione alla vita sociale. Sappiamo bene che, poi, questo insegnamento è stato spesso bistrattato, trascurato, fino ad essere estromesso dai programmi scolastici; soltanto nel 2019 è stato opportunamente reintrodotto nelle scuole di ogni ordine e grado, dando così nuovamente attuazione a quella felice intuizione di Aldo Moro.
La Scuola e l’Università non devono essere solo luoghi per la trasmissione di conoscenze, del sapere disciplinare, ma devono essere anzitutto delle comunità educanti in cui formare l’uomo e il cittadino. Alcuni aneddoti riportati da Francesco Tritto ci restituiscono l’immagine di un uomo tenacemente legato all’insegnamento, profondamente legato all’Università e ai giovani, che credeva fermamente nella funzione di educatore nel senso più elevato del termine, al di là appunto della trasmissione delle conoscenze disciplinari, pur indispensabili, e che vedeva soprattutto la lezione universitaria non come un monologo del docente in cattedra, ma come un momento di incontro, come un costruttivo dialogo dal quale ad essere arricchito era innanzitutto il professore, pienamente rispettoso dei suoi studenti, con l’abbattimento di qualunque gerarchia e con il senso di essere comunità.
Le sue lezioni si traducevano in discorsi appassionati, vibranti, pregni di contenuto umano, che suscitavano emozioni e sensazioni negli allievi (di Bari prima, di Roma poi, fino al giorno del suo rapimento).
Tritto ricorda, ad esempio, che in occasioni di particolari festività (come la vigilia di Natale) o alla domenica alcuni allievi accompagnavano Moro per assistere e partecipare alla messa, rimanendo poi all’uscita dalla Chiesa, al termine della funzione, a discorrere a lungo amabilmente con lui di varie questioni: dai problemi di politica estera a quelli di politica interna; dal racconto – colorito da una non celata fierezza – su un rigoglioso albero da lui personalmente piantato a Torrita Tiberina nel giorno della nascita del figlio Giovanni all’ultima proiezione cinematografica alla quale aveva assistito e che si premurava di consigliare ai suoi studenti.
Li conosceva uno ad uno i suoi studenti, ne conosceva le sensibilità e i problemi personali e familiari; in caso di missioni governative all’estero inviava loro una cartolina, a testimonianza del suo affetto. Se qualche studente si assentava dalle lezioni per malattia, era garantita la visita di Moro a casa o in ospedale, dove si informava delle sue condizioni di salute.
Uno dei punti fermi del suo corso era la visita agli istituti carcerari e ai manicomi giudiziari, perché riteneva indispensabile che i giovani si rendessero personalmente conto di queste realtà, solitamente sconosciute. E non c’è dubbio che fu fondamentale il suo ruolo nell’approvazione della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, di cui celebreremo a breve il cinquantenario.
“Ogni cosa acquistava colore nei colloqui con il Maestro” – scrive Tritto. “Ogni suo dire offriva nuovi spazi di riflessione; ogni sua riflessione prospettava dimensioni e significati diversi in merito a questa o quell’altra questione”.
Lui guardava dove gli altri non guardavano. Era lungimirante, una caratteristica che la classe politica degli ultimi decenni – al di là del colore politico – sembra avere del tutto smarrita, cercando solo di catturare il consenso in vista dell’immediata scadenza elettorale, anziché di pensare come Moro alle future generazioni, come dovrebbe fare ogni statista degno di questo nome.
La definizione di Tritto – un “educatore globale” – forse è la più giusta per uno dei grandi protagonisti della politica italiana ed europea del ‘900, che ci ha lasciato una grandissima eredità e degli insegnamenti indelebili.
Aldo Moro è stato un unicum sotto tanti profili, l’“uomo dell’unione e dell’incontro” – come pure lo definisce Tritto – e sicuramente resta una valida e attualissima prospettiva per i giovani e per l’Europa, avendo ancora tanto da dirci con i suoi scritti, i suoi discorsi, ma, prima ancora, con il suo esempio di vita e il suo altissimo senso del dovere.
Possiamo dire, in conclusione, che se il 16 marzo 1978 si interruppe il suo corso di lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale all’Università di Roma, la sua “Lezione” di vita a tutti noi e, in particolare ai giovani, non si è mai interrotta.
Sulle sue orme dovrebbe partire una mobilitazione culturale e sociale per il riscatto della “Politica”, con la “P” maiuscola, che rimetta l'uomo al centro. La costante del pensiero moroteo è, infatti, la centralità della persona umana, valore fondamentale dello Stato democratico: l’uomo prima di tutto, il punto di partenza e quello di arrivo di ogni agire politico. “Ogni persona è un universo”.
*Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Bari Aldo Moro