Pellegrini di speranza: la cura come atto di fede, carità e coraggio


FILIPPO MARIA BOSCIA*
- Innanzitutto mi sia consentito di ringraziare il mio caro Parroco Don Lino Larocca e tutti voi che siete intervenuti per questo momento di riflessione.

Devo un particolare grazie a Mons. Franco Cacucci che è l’ispiratore del titolo di questo incontro, che mi ha spinto ad una profonda riflessione.

Ogni spunto di meditazione proposta ha grande valore perché ci consente di ripercorrere ricordi esperienziali.

Cos’è la speranza? Forse è il più grande e vero patrimonio immateriale dell’umanità.

Quando si prende coscienza della fragilità della vita, quando il peso delle responsabilità ti travolgono, si ha proprio la sensazione che questa complessa emozione riaffiori come necessità a doppio canale di trasmissione. Si ha sempre la necessità di rifornirsi di speranza, si ha sempre la necessità che il contenitore della speranza sia colmo perché si svolga quella funzione magica del rassicurare e del rassicurarsi.

La speranza è un motore che ha la necessità di restare sempre acceso e personalmente vi confido che l’ho sempre cercata e nessun giorno della mia vita di medico ne è stato escluso.

Da giovane coltivavo le certezze, ma quando la vita professionale ha preso il forte sopravvento e le azioni, tutte di responsabilità della cura e del prendersi cura si sono fatte giornalmente numerose, devo dirvi che ne ho avuto sete! Sete di speranza, necessità di sapienza, hanno aperto meglio le porte del discernimento e della responsabilità disponibile.

Nel periodo pandemico, laddove la paura di non farcela, fisicamente, psicologicamente e professionalmente, era sovrana, proprio in quel contesto è emersa con maggiore insistenza, la necessità di speranza.

Non c’è giorno che io non incontri la speranza, non c’è giorno che io non debba trasfonderla con delicata sollecitudine, ma non c’è giorno che io non debba attingere alla fonte della speranza per le mie personali e professionali esigenze.

Le virtù teologali ce le avevano trasmesse da bambini, ma da bambini non si comprende affatto il senso della speranza. I bambini hanno molte certezze nell’ambito dell’agire, la speranza li pervade soltanto quando cominciano ad apprendere il senso della responsabilità.

E anche quando non si è in grado di rispondere a quel che tumultuosamente la vita ci richiede, allora questa virtù appare prima velata e poi si sostanzia.

In questo senso, con gli anni si diventa maturi per essere pellegrini di speranza.

Raccontare le molteplici storie è davvero difficile perché la speranza si è calata, volente o nolente, in tutti gli ambiti della vita personale, familiare, sociale, accademica e professionale ed oggi, ancor più, nell’ambito di quel profilo di salute che, come si suol dire, ognuno spera di mantenere.

La speranza è un iter virtuoso del quale abbiamo sempre bisogno!

Dal momento in cui è stato indetto il Giubileo, ho riflettuto molto sul valore della speranza e sulla missionarietà della soglia da varcare, sia in entrata che in uscita.

La Spes non confundit, la speranza non delude. Così recita la bolla di Indizione giubilare resa pubblica da Papa Francesco l 9.5.24.

La speranza che non delude mai, andrebbe incardinata e calata in tutti gli ambiti della vita professionale.

Nell’incontro tra un medico ed un paziente si concretizza un magico e speciale momento che vede il paziente, pellegrino di speranza, alla ricerca di una coscienza, dalla quale si attendono risposte abili, ma soprattutto si attende la fondazione di una relazione che non illuda e mai deluda.

E’ un incontro che potrebbe vacillare e cedere nelle difficoltà, ma che, solamente se nutrito da amore e disponibilità, competenza e preparazione, spiritualità e fede, può essere potenziato da quelle doti di sapienza e discernimento che il Signore ci infonde.

Noi medici, sempre, abbiamo di fronte non dei casi clinici//ma delle persone con le loro sensibilità, con le loro specifiche peculiarità, con le loro paure, incertezze, paturnie, timori di abbandono e timori di non farcela.

Noi abbiamo responsabilità che ci impegnano in senso umano, in senso intellettuale e progettuale, ma questa responsabilità ha in sé tutte le pur possibili incertezze nell’ambito dell’agire.

Speranza e paura sono emozioni dominanti quando il futuro lo vediamo incerto. In gravosi impegni o in tempi di crisi speranza e paura coesistono come emozioni dominanti, in grado di influenzare e modificare il nostro modo di affrontare il futuro.

Io le trovo passioni correlate, la prima connotata da positività ci fa aprire lo sguardo ad un’attesa che quel che desideriamo, in termini di salvezza, diventi realtà, ma la paura si accompagna al timore per un’eventuale mancata realizzazione dell’obiettivo che ci siamo proposti.

In queste situazioni conflittuali io ho trovato la forza di non arrendermi nella speranza, sicchè ogni decisione, pensiero o progetto, se guidato dalla speranza, esprime l’irriducibile passione di sviluppare nuovi orizzonti.

Nell’ambito della speranza ritrovo l’amore che di per sé è condizione che stimola il coraggio.

Soprattutto nelle responsabilità professionali abbiamo bisogno di vivere la speranza. La speranza è con noi ma con carisma noi dobbiamo cercare di ritrasferirla all’altro.

Forse la speranza la possiamo trasmettere con un abbraccio o con il senso amicale della compassione, ma sempre e comunque abbiamo bisogno di un’alleanza.

Su questo fronte noi dovremmo cercare di rendere ferma la nostra professione, ma anche rendere ferma la passione per la speranza, soprattutto entrare nella dinamica della carità: Abbiamo bisogno di porre la speranza su un doppio binario, in uscita e in entrata ed essere certi che la soglia da varcare sia sempre attraversabile sia in entrata che in uscita.

Questa dinamica, a doppio binario, ce l’avevano trasmessa da bambini, ma da bambini non lo si comprende. Nella maturità, ancor più percepiamo, che le tre virtù teologali (fede, speranza e carità) sono inseparabili.

Nella Medicina questo assunto è assoluto e dominante.

Dobbiamo prendere atto sempre che la malattia ci fa vivere in contesti sociali e culturali, a volte paradossali, nei quali l’homo patient, senza accorgersene, entra in un tunnel nel quale non riesce più a comprendere l’enigma della sua stessa esistenza.

E’ un baratro spesso ritenuto buio e senza speranza, e questo non riguarda il singolo malato, ma anche tutti coloro i quali hanno la ventura di essere viandanti attori nella malattia o compagni spettatori, direi attori non protagonisti della sofferenza e della fragilità: sono i parenti, i cittadini amici, i care giver, i counselor, le persone amate, che non vanno mai escluse dalla scena, anche se appartengono ad una diversa categoria! Essi sono tutti attivisti di speranza e tutti testimoni di speranza.

La nostra professione è azione privilegiata nella quale noi percorriamo strade di reciprocità, andiamo incontro al malato/persona e non al malato/organo, nel rispetto della sua dignità, della sua integrità morale, psicologica e della sua decisionalità, della necessità di dispensare informazioni corrette, di tracciare la strada della “care” dopo aver acquisito un consenso libero, personale ed informato...

Il teatro della cura è fatto dai protagonisti che interagiscono con le tante altre comparse e tutti, con profondo sentire, sono sintonici nel percepire tutte le più diverse emozioni e passioni, paure e angosce, che, collocate in un crogiolo ustionante, attendono che la salute distrutta si rigeneri e si ricostruisca. In questi momenti non c’è luce dove è buio, ansia, vertigine, tribolazione, tempesta. E allora abbiamo bisogno di una bussola, della compassione, e in questo contesto attiviamo la fiamma della speranza per passare dall’incertezza alla sicurezza, dal degrado alla luce dell’ascolto, anche delle parole non dette.

Costruire una relazione nel buio e nel dolore è difficile, ma se c’è incontro, abbraccio e sostegno, ogni sollecitudine diventa ricerca di senso, cancellando ogni disperanza e disperazione.

Caliamoci per un attimo nella tragedia del Covid-19.

Siamo stati tutti coinvolti e abbiamo appreso che chi sta male, chi soffre, chi chiede aiuto, è in disequilibrio emotivo, traballa, vorrebbe scappare, il tumulto delle emozioni li trascina in una profonda depressione. Le loro parole sono invocazioni di aiuto! Le loro parole:

  • “cerco di non pensarci”,
  • “vorrei parlare”, ma con chi parlo? Gli assenti sono tanti!
  • “vorrei che qualcuno ascoltasse le mie pene” 

Qualcuno mi ascolta ma poi scappa via, c’è un silenzioso distacco e questo distacco non i mi consente più di apprezzare i colori del giorno.

Credetemi, non è affatto semplice comprendere la sofferenza e generare sollievo.

Nei casi da me vissuti non si trattava di sensazioni minime, ma di percezioni ad alto coinvolgimento, anche spirituale, impasto di tanti fattori che, dai bisogni fisici, gravi ed insoluti diventano dolore morale, fratture affettivo-relazionali, che intersecano sradicamenti, abbandoni, esclusioni, spaesamenti e molto altro.

Non è mai una questione solamente fisica quando sono coinvolte corporeità e spiritualità...

Una turbativa può essere presente: è la disillusione… e questa fa dimenticare la speranza.

In questi casi il lavoro è davvero difficile. Come si fa a garantire che in modo rapido appaia luce, luminosità e catarsi, laddove c’è invece pesantezza esistenziale?

Le delusioni rendono particolarmente difficile la proiezione verso nuovi orizzonti.

Quanto più pesante è la disillusione, tanto più ampia deve essere la speranza, come moto di spirito che ci fa progredire nelle avversità e ci aiuta a vincere la paura di fallire.

A noi, operatori sanitari, spetta l’immane compito di coltivare la reciprocità…

Essere curanti, bendanti, fascianti e medicanti e in più essere apostoli e testimoni di speranza.

Sognare l’apertura della Porta Giubilare della speranza nelle azioni sanitarie si può: occorre reciproca relazione, senza distrazione, occorre abbracciare, venire incontro, toccare, ascoltare, guardare, vedere oltre…

Abbiamo una storia da raccontare che coincide con il periodo del Coronavirus SARS – Covid 19. Riguarda un mio amico, direttore del P.S. di Lodi, Membro di Accademie Internazionali, Consulente del Ministero della Salute.

Vittima di un grave incidente sulla tangenziale di Pavia, riporta gravi lesioni cerebrali ed entra in coma… qualcuno direbbe “in condizioni di terminalità”… ma dal coma si risveglia!

L’incidente ha cancellato dalla sua memoria 12 anni della sua vita.

Al risveglio dal coma è amnesico, spaesato nel suo orientamento tempore-spaziale.

La storia, dalla catastrofe transita verso la ripresa e si riconnette, nonostante questo transito, alla grande forza della speranza.

Lui è ripartito da dove poteva, si è rimesso a studiare per riaggiornarsi fino a tornare ad essere primario di un P.S., per aiutare le persone uscite dalla terapia intensiva in periodo Covid 19.

Quale migliore esempio per raccontare nella profondità il doppio binario della speranza.

La storia di Pierdante Piccione, che poi ha ispirato la serie TV dal titolo Meno 12 - “Doc, nelle tue mani!” è toccante ed intima e ci fa riflettere sulle prospettive di speranza nella malattia.

Vi prego di ascoltare dalla voce di Cristina Maremonti uno scritto, che è memoria autobiografica di Pierdante:

Quando mi sono risvegliato dal coma causato dal trauma cranico, dovuto a un incidente stradale, il primo sentimento è stato lo stupore.

Perché, oltre a qualche disturbo fisico, il grosso del problema è stato scoprire che il trauma mi aveva cancellato gli ultimi dodici anni di memoria.

Dodici anni in cui i miei bambini erano diventati adulti, mia madre era morta, ero diventato primario e professore a contratto in università.

Dodici anni in cui il mondo era cambiato.

Quando poi, con il passar del tempo, ho sperimentato come fosse convivere, ogni minuto di ogni giorno, con un'amnesia di dodici anni, lo stupore si è trasformato in rabbia.

Rabbia senza alcuna compassione.

Né per me né per gli altri.

Per nessuno.

Neanche per Dio.

Perché non riuscivo ad accettarmi per quello che ero diventato.

Un marziano in un mondo ostile.

Un fuggiasco circondato da nemici.

Cui anche Dio aveva girato le spalle.

Ma non c'era solo il mio non accettarmi come uomo nuovo.

C'erano anche gli altri.

Dice Borges che noi siamo i nostri ricordi.

La mia esperienza mi ha insegnato che un amnesico è anche,

anzi, è, soprattutto i ricordi che gli altri hanno di lui.

lo volevo che il mondo tornasse indietro di dodici anni.

Ma anche il mondo voleva che io tornassi indietro ad essere

quel papà, quel marito, quel figlio, quell'amico, quel medico.

Né io né il mondo ci accettavamo.

Uno stallo totale.

Finchè non mi sono ricordato di una frase di don Primo Mazzolari che mi aveva accompagnato durante la mia giovinezza:

“Chi ama davvero incomincia per primo”.

Quando ho iniziato a metterla in pratica ho ripreso ad avere sentimenti assieme al mondo.

Emozioni intense provate assieme.

Compassione, appunto.

Ma non una compassione statica.

Dinamica.

Un moto a luogo, emotivo, sempre più potente ed efficace.

Verso di me. Accettandomi per quello che ero diventato e capendo che un uomo nuovo doveva avere un approccio nuovo.

E che la mia disabilità poteva diventare una risorsa verso gli altri. Accogliendoli ed accettandoli. Capendo che, ad esempio, i figli non sono i sogni che tu hai avuto per loro. Che la devono pensare in maniera diversa dalla tua.

Che è questa varietà che arricchisce il vostro rapporto.

Accettandomi come paziente. Difficilissimo per un medico.

Perché l'empatia non te la insegnano in università. La devi sperimentare. E passare dall'altra parte della barricata è l'unica maniera.

Cambiando i tuoi comportamenti fino a scoprire abilità nascoste, ma necessarie per essere compassionevole

E allora mi sono richiesto la domanda che mi ero fatto e rifatto da giovane: Cosa voglio fare davvero da grande?

E la risposta è stata la stessa di allora: il medico, per potermi

prendere cura del dolore degli altri.

E per provare a guarire me stesso.

Perchè una cosa l'ho imparata sulla mia pelle.

Io non curo solo gli altri.

Io curo anche me.

Con compassione.


Non ho molto da aggiungere, ho solo da sottolineare alcuni passaggi per me importanti: sono i transiti “dallo stupore alla rabbia, dalla perplessità alla curiosità, dalle aspettative al desiderio di ritrovare i ricordi”.

Sono passaggi questi, nei quali si può intravedere la comparsa di quella che viene definita la frustrazione delle speranze, che ha insorgenza quando nella psiche compare la disperanza, emozione negativa che può evolvere in angoscia e disperazione.

Quel motore sempre acceso della speranza, di cui vi ho già parlato, è il sole che può collegare il presente al passato e coniugarlo con il futuro e che ci fa rileggere la nostra storia autobiografica, imprimendola nella nostra memoria perché la si possa riflettere e ci possa aiuta a ricercare nuove prospettive.

Siamo in movimento, impegnati, pur nella nostra debolezza, a riparare un arazzo lacerato, a costruire la trama di un tessuto fatto di significati e di valori, di compassione e condivisione. Ricordiamoci sempre che noi “non siamo” ma “diveniamo”.

Abbiamo raccontato stasera l’esempio più evidente dell’inscindibile rapporto medico-malato. Difficile, ma intenso, soprattutto quando abbiamo la necessità di comunicare la verità alla persona malata e dobbiamo parlare di prognosi, cioè di previsione di futuro incerto… fra 9 mesi, fra 6 mesi…fra 3 mesi e via discorrendo…

Ricordiamoci tutti che la stessa malattia può essere più o meno grave e sopportabile a seconda della persona che ne è affetta, che la percepisce e che la vive.

Tutti abbiamo esperienza delle terminalità non terminali, delle malattie inguaribili ma pur sempre curabili.

In tutta umiltà, nella consapevolezza di non conoscere tutto in questo complesso mondo che è la sofferenza, senza dispensare illusioni o sogni, possiamo vivere la fiammella della speranza, anche attraverso un umile “non so”. E questa umiltà del “non so, ma spero” riportiamola alla nostra mente soprattutto nel caso di malattie neurologiche, neurodegenerative, neurosensitive, nelle demenze e in tante altre malattie nelle quali le dinamiche mentali si scollano dalla percezione del reale.

Ricordiamoci che anche se conosciamo a memoria gli spietati dati di statistica, togliere la speranza equivale ad uccidere.

Viceversa, accendere la speranza significa dar luce alle tenebre, ma soprattutto esaltare il coraggio e quindi…

Coraggio! Ci vuol coraggio per metterci tutti in prima linea a lottare per lenire la sofferenza, non dimenticando mai che le virtù teologali devono restare sempre unite tra loro. Rendiamo inscindibili tra loro: fede, carità e speranza perché dalla loro unione possa emergere la guarigione.

* Già presidente nazionale dei Medici cattolici (Amci)