Oltre il Tempo e la Morte, “Horcynus Orca”

FRANCESCO GRECO. “Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio…”.

Mille e passa, infinite le password per accedere al testo, al suo fascino eterno che lascia senza respiro, le seduzioni e le sedimentazioni trasfigurate in archetipi.

La guerra, la morte, il tempo, la parola, le radici, l’inconscio, il mistero, la lingua, etc.

Walter Pedullà (“La Sapienza”) nella mitica introduzione: “Horcynus Orca ambisce, se non a svelare l’arcano che è la morte, perlomeno a esorcizzarlo…”. Intravedendone tutta la densità filologica, le sovrapposizioni barocche, i tunnel e i percorsi possibili, misteriosi come iniziazioni ma anche di sottinteso, ontologico furore etico (“i pescatori odiano Mussolini perché li manda alla guerra”, ”Il romanzo di D’Arrigo piange la morte poco tragica della verità”).

Stefano D’Arrigo (Ali, Messina, 1919 - Roma 1992) ci ha lavorato vent’anni (ma non è, come si pensa, lo scrittore di un solo romanzo), scrivendo e riscrivendo.

“Horcynus Orca” è uscito nel 1975 e a mezzo secolo dalla prima edizione, Rizzoli-BUR Contemporanea lo rimanda intelligentemente in libreria con foto e inediti materiali, pp. 1240, euro 18,00 (curatela e postfazione di Siriana Sgavicchia e uno scritto di Giorgio Vasta).

Perché si tratta di un long-seller silenzioso quanto pervasivo, che nessuno dice di avere in casa, ma quando chiedi, convinto che la lunghezza li ha scoraggiati, tirano fuori vecchie edizioni spiegazzate, con tratti di matita o di evidenziatore.

E’ la storia di ‘Ndria Cambrìa, che torna a casa dopo l’8 settembre e l’armistizio, al suo paese sul mare di Sicilia. Per scoprire che la guerra ha mutato tutto, il paesaggio, le anime, le vite. La scala dei valori. Ma è cambiato anche lui per quello che ha visto e vissuto. Ciò provoca smarrimento, balbettii, ripensamenti, la lacerante “persistente nostalgia” (Pedullà).

In parallelo, Ciccina Circè, icona della donna assira babilonese egizia micenea greca romana, sensuale e selvaggia, possibile sposa del pescatore ove un Messia arrivasse a redimere, illudere quel mondo aspro, ispido, atomizzato.

Un mondo sconvolto, alla deriva, irredento, dove la sola cosa vera è la morte, di uomini, soprattutto giovani e animali marini. E dove è meglio, pensano, non spargere il proprio seme: che affondi e muoia, è il suo destino, hanno deciso così.

Un romanzo dove riecheggiano tutti gli archetipi della classicità, dei popoli portatori di epos e mito, tragedia greca, commedia romana.

Allegorico, alchemico, sublime, denso come mosto, contiene tutti i grandi narratori siciliani: Verga, Capuana, Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Bufalino…

Con una prosa palpitante, a tratti selvaggia, in certi snodi accademica, dove prevale l’ossessione per la lingua degli avi, considerata pura (cosparsa di neologismi), e che svela, fra l’altro, l’ancoraggio al Mediterraneo, un mare semanticamente affollato, ma anche una madre che sfama i suoi figli prima di seppellirli nei suoi cupi abissi e dove finalmente forse avranno pace.