Quando il fuoco racconta il passato: la tradizione dei falò pugliesi
MARIO CONTINO* - Ogni inverno, quando il gelo sembra non voler lasciare spazio alla primavera, la Puglia si accende di fuochi. Sono i falò di Sant’Antonio Abate e di San Giuseppe, tradizioni che affondano le radici nel folklore pugliese contadino e che ancora oggi riuniscono intere comunità attorno a un rito che sa di sacro e di antico.
Il fuoco è protagonista indiscusso di questi eventi: un elemento che scalda, purifica, protegge. Per Sant’Antonio Abate, celebrato il 17 gennaio, i roghi assumono un valore apotropaico. Il Santo, noto come protettore degli animali e dei campi, viene invocato affinché allontani le malattie e le forze maligne, mentre la fiamma arde come promessa di rinnovamento. Le cosiddette fanove, nomignolo dialettale diffuso in molte aree pugliesi, soprattutto nel Barese, illuminano le piazze e diventano occasione di festa popolare, tra canti, vino e piatti tipici.
Tra tutti i falò, quello di Novoli, nel cuore del Salento, è forse il più celebre. Qui, da secoli, prende forma la monumentale Fòcara, una montagna di sarmenti di vite che raggiunge altezze spettacolari, costruita con il lavoro di centinaia di volontari. Ogni anno, circa novantamila fascine vengono accatastate secondo tecniche tramandate di generazione in generazione, fino a dar vita a un’opera collettiva che è insieme rito religioso, spettacolo e identità culturale. Non è un caso che la Fòcara sia stata definita «un inno collettivo al Protettore che unisce sacro e profano e raduna la comunità intorno al culto del santo anacoreta».
Eppure, dietro l’immagine del santo cristiano e della devozione popolare, si intravedono le ombre di un passato remoto. Il fuoco dei falò pugliesi richiama infatti antichi riti pagani legati al ciclo agricolo e alla rinascita della natura. Bruciare le fascine significava liberarsi del vecchio e propiziare il nuovo, invocare la fertilità dei campi e l’arrivo della stagione della luce dopo i mesi bui dell’inverno. L’uso della vite, pianta da sempre ricca di simboli legati alla vita, alla morte e alla resurrezione, non può che rafforzare questa lettura.
Anche i falò di San Giuseppe, che illuminano la notte del 19 marzo, portano con sé questo doppio significato. Da un lato celebrano il padre putativo di Gesù, protettore della casa e della famiglia; dall’altro ricordano, inconsapevolmente, riti ancestrali in cui il fuoco sanciva l’arrivo della primavera, risvegliava i campi e la vita sociale delle comunità.
Il falò diventa così un ponte tra epoche diverse. Nel corso dei secoli, la Chiesa ha scelto di inglobare e trasformare queste pratiche piuttosto che cancellarle, permettendo al popolo di riconoscersi in rituali che appartengono tanto alla fede quanto alla storia culturale. Allo stesso tempo, ha cercato di fornire un significato cristiano in grado di sostituire gradualmente i vecchi riti pagani.
L’origine di questa tradizione si lega a un’antica leggenda cristiana secondo cui Sant’Antonio donò il fuoco all’umanità, probabilmente come rivisitazione in chiave cristiana del mito di Prometeo. Di seguito un breve riassunto della vicenda.
In un’epoca buia e fredda, l’umanità soffriva per il gelo; gli uomini cercavano di proteggersi con pesanti indumenti ricavati dalle pelli animali, ma questo non bastava. In un inverno particolarmente rigido, le genti si unirono in una grande preghiera a Sant’Antonio, chiedendo al santo di trovare un rimedio a quel terribile freddo.
Mosso da profonda pietà, Sant’Antonio escogitò un piano per donare a tutti un mezzo capace di riscaldare e illuminare. Si recò all’entrata dell’inferno portando con sé un maialetto e un bastone di Ferula. Bussò ai diavoli chiedendo di poter entrare per scaldarsi un poco, ma i demoni, riconoscendolo come uomo di Dio, gli negarono l’ingresso. Allora il santo chiese che almeno il maialetto potesse passare.
I diavoli acconsentirono, ma non appena l’animale varcò la soglia, iniziò a correre, mettendo tutto a soqquadro. Incapaci di fermarlo, i demoni dovettero chiedere aiuto a Sant’Antonio.
Il santo calmò l’animale e, con un astuto stratagemma, distrasse i demoni, appiccando il fuoco al bastone di Ferula. Il legno di Ferula ha un cuore spugnoso che brucia senza fiamma visibile, un po’ come un sigaro, così i demoni non notarono il “furto”. Sant’Antonio riuscì quindi a portare il bastone al di fuori degli inferi.
Una volta all’aperto, agitò il bastone e lasciò volare nel vento le scintille della combustione, benedidendole e donandole all’umanità. Da quel momento, gli uomini poterono finalmente usufruire del fuoco.
I falò accesi in Puglia ricordano questo miracoloso evento e servono a ringraziare Sant’Antonio per il grande dono agli uomini.
Oggi, osservare una fanova o una Fòcara significa rivivere un legame ancestrale con il fuoco, simbolo universale di purificazione e rinascita. Le fiamme che salgono al cielo raccontano la continuità di un popolo che, pur mutando nei secoli, non ha mai smesso di celebrare la forza vitale della natura e la speranza di un nuovo inizio.
* Lo scrittore del mistero
