Natale nei simboli, dal 'Sol Invictus' a 'Nacht und Träume'
FRANCESCO GRECO - ROMA - Dalle mani dei bambini intinte nel guano e scolpite sulle pareti della Grotta dei Cervi a Badisco, alle orme dei T. rex sparse sulle rocce del pianeta (Cretaceo superiore), tutto è segno, tutto è simbolo. Metafora e allegoria. Palese, subliminale, carsica, inafferrabile, sfuggente eppur presente.
Il Natale è uno dei topos semanticamente più affollati della nostra storia recente. Che, nonostante le declinazioni blasfeme del III Millennio, non conosce relativismi. Il consumismo, la “mistica” rozza del regalo non riescono a sgualcire il suo mistero antico ma sempre nuovo, le intemperie non spengono la fiamma dentro di noi.
Ognuno ha il “suo” Natale, se lo porta nel cuore. Dal “Canto” di Charles Dickens a Ungaretti (“Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade…”), dall’Adeste Fidelis attorno all’albero a Eduardo (“Te piace ‘o presepio?”), fino ad Alfonso Gatto (“Sempre più disperata dentro l’anima…”) e a “Last Christmas” dei Wham!
E poi c’è il Natale di tutti, quello dei nostoi, della speranza che sopravvive, della voce del bambino dentro di noi. Che abbiamo vissuto in una serata di grande pathos e poesia nell’Aula Magna del Centro Teologico Valdese di Roma affollata da un pubblico rapito e si direbbe soggiogato dal livello culturale dello spettacolo (in tempi di proposte dozzinali e di maniera). Curato in tutte le sfumature, le aggettanze, le contaminazioni (in controluce si poteva leggere una polisemica lectio magistralis) dall’attrice, cantante e soprano Emanuela Mari (sorprendente il suo eclettismo, in tema il prezioso abito di stelle e lune) e Alessandro Piccioli, altrettanto multitasking (attore, voce, chitarra).
Il titolo “Il simbolo annuncia il Natale” è forse riduttivo. Perché in sostanza è stato anche un excursus storico, dal “Sol Invictus”, culto risalente al tardo Impero (III secolo d.C.) istituzionalizzato dall’Imperatore Aureliano (nel 274), al Presepe di san Francesco, a Franz Schubert, “Nacht und Träume”.
Serata introdotta dalla fascinosa disquisizione sui simboli, sacri e non, i loro intrecci, echi e risonanze, della scrittrice siciliana Lorenza Altamore, autorità della materia (suo “La forza dei simboli sacri”, edito nel 2024 da Psiche 2 di Torino): “Il simbolo non è solo comunicatore, ma diviene, attraverso la ricerca vibrazionale, attore della sua stessa proposizione”. La scrittrice ha spiegato quelli ontologicamente legati al Natale, la riconciliazione e il perdono, l’abbondanza, l’eliminazione delle energie negative. “Non c’è Natale senza perdono e riconciliazione: tutti ne abbiamo bisogno, soprattutto in questo periodo…”.
Il simbolo è costante che scorre e illumina tutte le culture alla base della nostra civiltà: Egizi, Assiro-Babilonesi, Grecia, Roma e religioni: Induismo, Islamismo, Ebraismo, ovviamente Cristianesimo.
I bei versi del poeta campano (Morcone, Benevento) Aurelio Bettini, tratti dal libro appena uscito per Scripta Manent “La leggenda del poeta e della principessa”, hanno dato all’evento una modulazione light e magica. Il poeta poi ne ha fatto dono ai presenti con un sorriso: “Da quando ho cominciato a scrivere versi, guardo il mondo con occhi diversi…”.
Atmosfera accentuata dalle canzoni di Piccioli “in cerca dell’essenza del Natale”: (“Ogni favola è un gioco”, Bennato), “Jesce sole”, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, dalla “Gatta Cenerentola” di Roberto De Simone (1972), etc.
Dal dio Horus a Helios passando per Apollo e i riti dei Celti, il culto del dio-Sole ha avuto significati esoterici, alchemici, barocchi. Erano il concept sottinteso di feste in suo onore che duravano giorni. Identico il messaggio: la luce scaccia le tenebre. Fu poi Costantino a sovrapporvi la nascita di Gesù quando (313) il Cristianesimo divenne religione di Stato.
Col “Cantico delle Creature”, nel Medioevo san Francesco rafforza il mistero della nascita e la rende, come dire, popolare (anche col primo Presepe).
Nel periodo barocco i nobili entrano in competizione: chi acconcia il Presepe più bello e sontuoso? Ma, al solito, è sempre il popolo (nello specifico, quello napoletano, XVIII secolo) che, con la istintiva creatività, lo arricchisce della sua energia escatologica, del suo fuoco greco (“Quanno nascette Ninno”).
La “Pastorale” di Händel (1712), “Stille Nacht” di Gruben (1816) e “Nacht und Träume” di Schubert (1825), etc. sono anche il contrappunto “alto” alla cultura popolare.
La serata si conclude con una calda standing ovation di riconoscenza per chi ha donato il brivido della poesia e della bellezza e lo scambio di auguri che, fra sconosciuti, ha un significato più pregnante, poiché essi stessi sono portatori di luce e speranza: “Quella luce – osserva Lorenza Altamore – rimasta accesa durante la camminata, resti sempre accesa nel mondo e nei nostri cuori…”. “Perché Natale è tornare a casa”, sorride stanca ma felice Emanuela Mari. Lì dove la luce, nonostante tutto, è sempre accesa…
